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Judo

"FENOMENI" - Il Judo è infinito alla seconda, parola di Ingegnere.

Sono molte le qualità che appartengono a un vero judoka. Le peculiarità che contraddistinguono Vincenzo Distefano, intervistato per la rubrica Fenomeni sono altrettanto numerose: resilienza, umiltà, disponibilità, simpatia.

Classe 1965, Vincenzo è associato da molti anni presso il Dojo Trieste, come ricorda Ranieri Urbani: “Nel 2009 quando aprimmo il Dojo, uno dei primi piccoli allievi fu Antonio, figlio di Vincenzo, di sei anni. Così conoscemmo la famiglia Distefano. In questi anni posso dire che Vincenzo è stato un punto di riferimento per tutti i giovani judoka, bambini e ragazzi, poi come 1° dan anche per gli adulti, mettendosi sempre a disposizione con molta umiltà. É un esempio di determinazione e passione, di quella voglia di imparare e mettersi in gioco che lo fa essere ancora un giovane atleta”.

Vincenzo, come ti sei approcciato al judo?

“Iniziai nel 1970. Mai mi piacque, da bambino!”

Chi era il tuo Maestro allora?

“Il glorioso Maestro Mazza, presso la Casa del Giovane!” dice sorridendo al ricordo. “Praticai fino al 1978/79, più che altro perché seguivo mio cugino più grande. Ero magrolino, poco portato, come sono sempre stato, scoordinato, trovavo molto difficile questa pratica. Nonostante il Maestro che mi era caro e i compagni pure lo fossero, non ebbi più la forza di continuare. Il judo non perse un grande judoka! Ogni tanto, sfogliando un libro di Kazuko Kudo che mi avevano regalato negli anni ‘80, mi tornava la voglia, ma mai lo feci.  Circa trent’anni dopo mio figlio, Antonio conobbe Ludovico Urbani all’asilo: Ludovico lo invitò a provare il judo nella loro società e ad Antonio piacque. Da genitore iniziai a seguire i progressi di mio figlio, i primi Criterium…”

E già lì scattò qualcosa.

“Sì!  Anche solo l’odore del tatami mi ricordava i miei momenti da judoka. Ma ancora non ci pensavo a riprendere. Una sera mio figlio mi saltò sulla pancia mentre ero disteso sul divano e mi disse: papà, il regalo più bello che mi potresti fare è quello di venire a fare judo con me!

Come gli era venuta in mente quell’idea?

“Si era eccitato perché gli avevo mostrato le mie foto degli anni ’70! E aveva iniziato a raccontare a tutti i suoi amici che suo padre faceva judo e che lo avrebbero presto rivisto sul tatami! Mi feci forza e cercai di ingannarlo: chiesi al Maestro Urbani di farmi fare due passaggi sul tatami in modo che mio figlio mi vedesse e fosse contento così. Il Maestro ridacchiò e mi accontentò. Finì che mio figlio, almeno momentaneamente, lasciò il judo e io… sono impazzito! Ho iniziato a studiare, a provare…”

Cosa ti era scattato dentro?

“Direi due cose. La prima: ho trovato amici, un incontro invece che uno sconto e, quando qualcosina sono riuscita a metterla in pratica, ho intravisto le possibilità di crescita attraverso un buco della serratura e ho cercato di infilarmi dentro quella stanza dove tutti si divertivano! Come tante cose che iniziano a prenderti senza che tu te ne accorga, così mi sono lasciato conquistare: il judo è infinito… un ingegnere direbbe che il judo è infinito alla seconda!” ride.

C’era un secondo motivo, dicevi, per cui sei tornato sul tatami.

“Avevo un conto in sospeso col mio primo Maestro. Nel 1977, credo, ero una giovanissima e immeritata cintura marrone; il Maestro Mazza pregò me e un mio compagno di preparare una dimostrazione per le cinture precedenti in occasione dei loro esami. Fummo negligenti, approssimativi, facemmo veramente una brutta figura. Pur giovanissimo, scorsi la delusione negli occhi del mio Maestro. Sembra di no, ma ci sono piccoli dettagli che restano dentro di noi per tutta una vita. Quando sono tornato sul tatami quel ricordo è affiorato in me con prepotenza e ho cercato in ogni occasione di riparare a quella figuraccia!”

Che ricordo hai del Maestro Mazza?

“Splendido! Era una persona espansiva, che io vedevo con gli occhi del ragazzino, ma ripensandolo adesso, con gli occhi dell’adulto, mi rendo conto di quanto buono fosse e di quanto ci ha dato, senza che ce ne accorgessimo”

La ripresa dell’attività judoistica è servita anche da sfogo in un momento lavorativo piuttosto delicato.  

Vincenzo, come è avvenuto il passaggio dall’essere un ingegnere più o meno affermato a diventare un imprenditore in ambito alimentare?

“Dopo diverse esperienze presso la Seleco e la Cartiera Burgo di Duino, assieme a mio fratello ho fatto una scelta di vita. Abbiamo deciso di seguire l’azienda di famiglia, nel campo del commercio alimentare. Abbiamo lavorato insieme per vent’anni, raccogliendo molte soddisfazioni, ma commettendo anche degli errori. E nell’imprenditoria, molto spesso, gli errori si pagano cari. Non siamo riusciti a recuperare dei crediti che avevamo incautamente dato e abbiamo dovuto chiudere, con conseguenti disagi finanziari di un certo peso. In quel momento davvero difficile, i judoka sono stati tra i primi a cercare di aiutarmi, a partire dai gemelli Giacomo e Simone Fratti, entrambi apprezzatissimi Ingegneri, che hanno provato a farmi reinserire sul mercato lavorativo dell’Ingegneria Meccanica. La cosa non è andata in porto perché io sbagliavo l’approccio: una persona come me, che ha esercitato attività di impresa per decenni, non deve andare ossessivamente alla ricerca di un posto di lavoro, bensì, da buon commerciale, deve crearsi le opportunità affinché il lavoro trovi lui. A ogni modo, il numero, l’intensità e la proattività dei judoka è stato sinceramente sorprendente e mi ha fatto tanto piacere!”

Poi, per fortuna, l’occasione giusta è comunque arrivata.

“Sì! È stato il cugino di mia moglie, Mauro Franco, ad aiutarmi: la gente di carattere si vede nei momenti di difficoltà e lui, in qualità di titolare di un’azienda di cantieristica navale, mi ha dato la prima, determinante opportunità di tornare in pista, venendo poi chiamato da altre aziende e persone, girando il Mondo. Qualcuno, confusamente, mi dice che ormai sono diventato un ingegnere internazionale: ahimè non basta viaggiare per diventarlo, però sono stato in Alaska, dove ho visto il saloon più vecchio d’America! E poi tutta la Costa, lavorando nell’Ingegneria Meccanica di bordo.  Così come mi è successo ai Caraibi – però nessun assalto dei pirati! -” scherza. “E ancora sono stato nel Mar Baltico, in India, di cui ho un bel ricordo, anche umano! Ora ho in cantiere diversi progetti e mi ritengo soddisfatto”.

Il tutto sempre senza trascurare il judo, una passione così forte da portarti addirittura a partecipare a delle gare Master in anni recenti!

“Volevo recuperare il tempo perduto e fare quello che da giovane non avevo voluto, come le gare! Era il 2013 e ho partecipato al World Master Games: lo confesso, quando sono arrivato in gara sarei voluto scappare! C’erano ex nazionali di ogni parte del Mondo … ma la verità è che più alto è il livello del judoka con cui ti incontri e più lui ha cura di te, persino in uno shiai. Ricordo che, a un’altra gara, incontrai il Maestro Durigon, splendido judoka, carissima persona. Ovviamente non c’era confronto tra i due judoka sul tatami! Io ero felicissimo, perché ci stavamo scontrando in finale, quindi era già un traguardo per me! In più c’erano gli amici del Dojo a guardarmi e c’era mio figlio sugli spalti a guardare suo padre disputare una finale! Il Maestro Durigon diede un’occhiata a mio figlio che mi salutava prima che salissimo sul tatami.  Quando siamo l’arbitro ha dato l’hajime ho capito che il Maestro stava facendo un judo che era rapportato a quelle che erano le mie capacità e non le sue! Solamente dopo un divertentissimo minuto e mezzo ha cominciato a divertirsi anche lui, ad accelerare, a fare il suo judo, con un esito che era scontato fin dall’inizio!”

C’è un aspetto del judo che ti porti dietro quando lavori e uno del tuo lavoro che ti porti sul tatami?

“Assolutamente sì. Sul lavoro mi porto la resilienza che porta ad accogliere l’attacco del tuo compagno senza irrigidirsi, ma cercando i gaeshi e sfruttando l’occasione, anche in caso di sconfitta. Mentre, nel judo mi porto dietro una certa assuefazione alle crudezze degli accadimenti: se hai avuto un grosso problema finanziario, sei, anche sul tatami, più predisposto a ricevere una proiezione violenta in un combattimento, considerandola come un evento da assorbire e superare, senza timore di riprovarci la volta successiva”

C’è ancora un progetto che hai nel cassetto?

“Ne ho tantissimi! Sul lavoro, tra i vari, una nuova sfida, nell’ambito della gestione della Sicurezza nei cantieri mobili e nel judo… intanto di sembrare un judoka, perché certe cose non è che mi riescano proprio tanto bene! Io vorrei, per citare il mio sempai Gigi Barbieri, diventare un bel judokin! Non ho la pretesa di diventare un judoka molto avanti nella Via, ma vorrei sentirmi più sciolto e, come mi ripeteva spesso il Maestro Scacco, armonico, in modo da creare un vero e proprio trasferimento di energia e non i movimenti a scatti, riuscendo a trovare l’opportunità, come vedo fare ai judoka più bravi e che, sinceramente, gli invidio in maniera incredibile! Ecco, il mio obiettivo non è arrivare a esprimermi al 100 %, ma dare tutto me stesso per raggiungere almeno il 2% ed essere soddisfatto di me stesso”.