Tenacia, decisione, autodisciplina: sono alcune delle caratteristiche preponderanti del protagonista di giornata della rubrica Fenomeni, Norbert Ackermann.
Classe 1944, austriaco di nascita (fu Villacco a dargli i natali), goriziano e poi triestino d’adozione, Norbert, tesserato presso il Judo Club Ken Otani Trieste da ormai una ventina d’anni, è uno tra i judoka regionali più longevi a proseguire ancora nella pratica del judo, con la stessa volontà ferrea di quando era un ragazzo.
Norbert, perché dall’Austria ti sei spostato in Italia?
Ho frequentato le scuole elementari in Austria, poi i miei si sono separati e quando mia madre si è risposata mi ha portato con sé a Gorizia, dove, terminate le scuole medie, mi sono iscritto al Liceo Classico locale.
Proprio a Gorizia hai iniziato la pratica del judo.
Sì, mi ero avvicinato al judo perché mi interessava l’aspetto legato alla difesa personale, poi mi sono appassionato allo sport in sé. Avevo sedici anni quando ho iniziato, il mio maestro era Gazzetta.
Da Gorizia come mai ti sei spostato a Trieste?
Gli allenamenti che seguivo mi piacevano, ma non si facevano molti randori, così ho deciso di allenarmi anche a Trieste. All’epoca qui esistevano il Dopo Lavoro Ferroviario e la Ginnastica Triestina, dove insegnava già da alcuni anni Palmiro Gaio e c’era tantissima gente. Ero all’ultimo anno di Liceo e, trovandomi bene con il gruppo triestino, ho iniziato a venire alla SGT tre volte alla settimana, in treno! Ricordo che c’era ancora la materassina della lotta al posto del classico tatami.
È così che hai conosciuto colei che poi diventò tua moglie, Edvige.
Sì: ogni tanto andavo a “bastonare” gente anche del DLF, dove, in quel periodo, insegnava sempre Palmiro, così conobbi Edvige. Lei era una cintura bianca e io ero già marrone. Dopo un anno che ci conoscevamo decise di trasferirsi alla SGT pure lei. Era una specialista nelle spazzate, perché da giovanissima il suo sport era pattinaggio a rotelle e quindi aveva un buon senso del ritmo e dell’equilibrio. Era una buona judoka, vinse il primo Città di Trieste.
A proposito di gare, anche tu eri considerato uno di quelli da battere.
Eravamo una squadra forte: c’era Sandro Kramar, che ha iniziato a fare judo qualche anno dopo di me, Franco Dubbini, che pesava sì e no 50 kg e combatteva nei 63 (all’epoca c’erano solo tre categorie: i 63, gli 80 e gli oltre). Ma questo venne dopo… le prime gare alle quali ho partecipato a livello regionale andavano bene, a livello nazionale ancora non riuscivo a impormi. Col trasferimento alla SGT, invece, avendo tanti partner con cui misurarmi, ho iniziato a vincere qualcosa in più. Nel 1965 partecipai al Trofeo Viralfa, a Milano: eravamo partiti in dieci, compreso Palmiro, per il quale, se non ricordo male, fu l’ultima gara, anche perché si fece male… di dieci, nove uscirono al primo turno, mentre io mi guadagnai la medaglia d’argento e venni notato dal Maestro Koiké, allora Direttore Tecnico della Nazionale italiana, che mi convocò per un allenamento nazionale a Spilimbergo. Ero contento, l’allenamento andò bene e mi venne comunicato che avrei fatto parte della squadra che doveva sfidare la nazionale belga di lì a qualche settimana. Mi chiesero se avevo il passaporto: ovviamente risposi positivamente, ma specificai che avevo soltanto quello austriaco, visto che era la mia nazionalità! Non ci potevano credere: erano anni che partecipavo ai Campionati Italiani!
Com’è possibile? Nessuno aveva mai controllato?
Sul tesserino la nazionalità non era indicata che io mi ricordi e io mi presentavo in gara con la mia licenza di pesca, dove era indicata solo il mio nome con la foto!
Come andò a finire?
Purtroppo saltò tutto: convocazione annullata e il povero Palmiro chiamato in Federazione a rispondere di quella “svista”! Non potei più prender parte ai Campionati nazionali, però potei partecipare a un Criterium, che era una gara di promozione, dove in palio c’era, per i primi due classificati, la cintura nera. Era il 1966 ed in categoria eravamo circa una settantina di persone. Vinsi la gara e ottenni il primo dan.
L’anno successivo partecipai ai Campionati Universitari, che allora erano una gara con valenza federale. In finale mi trovai con il favorito della categoria degli 80 kg, Gaggera, della Fiamma Yamato Roma: lo sconfissi per ippon. Gaggera accettò la sconfitta, ma, essendo ormai risaputo il fatto che ero un cittadino austriaco, chiese ai Direttori di Gara che il punteggio che io avevo ottenuto venisse accreditato al suo club, non potendolo accreditare al mio. I responsabili, con salomonica decisione, non dettero i punti a nessuno dei due!
Il 1967 è anche l’anno in cui hai iniziato a insegnare.
Palmiro era andato per lavoro a Nettuno per alcuni mesi e così lo sostituii al Ferroviario per un periodo. Poi arrivò Angelini e prese il mio posto. Alla SGT, invece, Mazza, sempre per lavoro, si spostò in Piemonte e io mi presi carico dei corsi dei bambini e del corso femminile, che era composto di una ventina di promettenti agoniste. Al ritorno di Mazza, gli riconsegnai il corso dei bambini, mentre proseguii con le atlete fino al 1972, quando anche i miei impegni lavorativi divennero troppo pressanti. Subentrò Sandro Kramar, che unificò i corsi maschile e femminile, cosa molto intelligente, perché permetteva maggior ricambio nei randori: sono sempre stato a favore dell’allenamento misto. Ricordo che il Kuroki Tarcento aveva una forte squadra femminile all’epoca, in cui spiccava, tra le altre, Laura Di Toma e avevano una marcia in più perché facevano anche allenamenti misti.
Dicevi che anche tu hai dovuto rinunciare all’insegnamento a causa del lavoro: eri un chimico, vero?
Sì, mi sono laureato in Chimica all’Università di Trieste. Per dieci anni ho lavorato presso la Veneziani, un’azienda che si occupa di produzione di pitture protettive, nel settore chimico. Poi mi sono messo in proprio e mi sono specializzato nella consulenza sulle protezioni anticorrosive per le navi. Giravo mezzo Mondo per almeno sei mesi all’anno, un mestiere incompatibile con quello di insegnante.
Appassionato judoka, chimico esperto. Come sei finito ad occuparti di viaggi organizzati in Alaska?
Nacque tutto dalla passione per la pesca, iniziata quando ero un bambino di sei anni e mi portavano a pescare prima sui laghi austriaci e poi, alcuni anni dopo, in Italia, sull’Isonzo. Mi piaceva un sacco pescare e iniziai a leggere delle riviste specializzate. Fu così che, ormai adulto, scoprii che in Canada esistevano dei luoghi che erano il Paradiso dei pescatori. Ero già sposato con Edvige e decidemmo di andare in vacanza in Canada: era il 1976 e visitammo la provincia del British Columbia. Ci piacque e tornammo l’anno successivo e quelli dopo, fino a che, nel 1980, Edvige mi disse che era stufa di andare in vacanza sempre negli stessi posti. Così mi informai e scelsi di andare in Alaska, dove c’erano luoghi altrettanto interessanti dal punto di vista della pesca e, ovviamente, della natura. Nel 1981 facemmo la prima vacanza in Alaska: bellissima!
Supportato da mio padre, decisi di scrivere un libro specialistico di pesca su queste mie esperienze. Nessun editore volle pubblicarmelo, così ne feci stampare a mie spese 2000 copie, che poi mio padre dall’Austria spediva a chi le richiedeva.
Tramite il passaparola, la gente iniziò a conoscermi e a riconoscermi anche un ruolo di esperto di pesca in quei luoghi, all’epoca visti come desolati e insoliti. Iniziarono ad arrivarmi richieste di tour e mi dissi “perché no?!”. Mi organizzai, con l’aiuto di mia moglie e iniziai a portare i primi gruppi in Alaska.
Fu complicato calarti nel ruolo della guida?
All’inizio non fu facile: bisognava pensare agli approvvigionamenti per tutti, a prenotare alberghi, mezzi di trasporto… diciamo che i primi viaggi furono più spartani. Poi capitò che, tramite Edvige, che è Presidentessa dell’Associazione Esperantista Triestina, conoscemmo una coppia di esperantisti che vivevano in Alaska e che ci diedero l’uso di un magazzino, che usavamo come base per tenere tutto ciò che ci occorreva prima di dirigerci nei boschi.
Chi veniva con voi era pronto a quello che lo aspettava?
Non sempre: non è una vacanza come le altre, con i confort a portata di mano e si deve mettere in conto che ci potrebbero essere degli imprevisti, visto che si dorme nelle tende e si vive a contatto con la Natura.
Imprevisti come gli orsi?
In realtà gli orsi tendono a farsi gli affari loro: vengono per pescare, così come noi e, di solito, lo fanno nella stagione autunnale, per prepararsi al letargo. Capita di rado di vederli da vicino. Raramente è capitato che qualcuno di loro decidesse di avvicinarsi alle nostre tende, ma, quando è successo, era per assaggiare il nostro cibo, non per assaggiare noi!
Sono animali molto grandi?
Un orso bruno o un grizzly può pesare intorno ai 350 – 400 kg. Poi ci sono i più grossi, quelli dell’Isola di Kodiac (sempre in Alaska) che possono arrivare fino a 700 kg e a un’altezza di tre metri: non è il caso di farci randori insieme!
Cosa non bisogna fare quando ci si trova davanti un orso?
Bisogna cercare di non perdere la testa. Di solito è una pacifica convivenza quella tra gli umani e gli orsi. Se vengono per attaccarti correre non serve a molto, perché sono molto veloci e, se vogliono, ti prendono. Solitamente, se proprio è necessario, è sufficiente sparare un colpo a salve verso l’alto per spaventarli o sparare un razzo di segnalazione, che li mette in fuga per via della luminosità improvvisa. Qualcuno, come estrema ratio, usa i pallini di un fucile da caccia per lepri e piccoli animali, ma si cerca di evitare anche quella minima ferita, povere bestie!
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Ti è mai capitata una situazione rischiosa?
Una sola volta, ma era tutto sotto controllo: un orso si era rifocillato con i nostri viveri, circa a metà delle vacanze, costringendoci negli ultimi giorni a cibarci di cibo liofilizzato, come quello degli astronauti. Avevo sparato in aria e l’orso aveva subito capito l’antifona, anche perché aveva mangiato abbastanza! Da quel momento un uomo del gruppo era andato in crisi: andava dicendo che voleva tornare a casa, che aveva moglie e figli ed era troppo giovane per morire! Non aveva più voluto pescare, continuava a guardarsi intorno preoccupato, però quando chiedevo un aiuto per portare le attrezzature, era sempre disponibile a tenere in mano il fucile! L’anno dopo però deve aver ripreso coraggio, perché è voluto tornare in Alaska!
Con il Covid hai dovuto sospendere questa attività.
Purtroppo sì. L’ultimo viaggio l’ho fatto nel 2018.
Nel frattempo inganni il tempo, tra le varie attività, continuando a guardare le gare di judo. Che cosa ti aspetti da queste Olimpiadi?
Ci sono tanti atleti che varrà la pena vedere all’opera. A cominciare dalla squadra giapponese, che io vedo tra le favorite. Tra gli italiani ho grandi aspettative in particolare per Lombardo e Giuffrida e credo che anche Basile, se in giornata, ci saprà regalare emozioni: ha un judo elegante, pulito, propositivo. In più parteciperemo anche col mixed team, che penso sarà molto interessante, anche se credo che probabilmente la finale sarà tra Giappone e Francia.
Sei mai stato in Giappone?
Io mai, Edvige sì e ha detto che è davvero bello! Mi sarebbe piaciuto andarci per il judo, è logico, ma non ho rimpianti, è andata così.
Noi judoka, oggidì, guardiamo a questi atleti con speranza e ammirazione, tifando per loro e augurandoci che portino a casa una medaglia. So che tu, anni fa, a una gara, hai incontrato uno dei tuoi atleti favoriti, Kosei Inoue. Che effetto ti ha fatto?
Erano i Campionati Mondiali Junior a Lubjana, mi sembra nel 2013: stava guardando i suoi atleti, ma tutti gli rompevano le scatole con richieste di foto insieme e chiacchiere varie. Chi era con me voleva facessi altrettanto, ma mi sono limitato, a gara conclusa, a farmi autografare i dvd in cui lui insegnava, che avevo acquistato in quell’occasione.
Che cosa pensavi mentre stavi per parlare con lui?
Che me l’ero immaginato più basso vedendolo in tv!
Il Covid ci ha tenuto fermi a lungo. Che cos’è ora una delle prime cose che hai in programma di fare e che, fino a poco tempo fa, non si poteva?
Tornare in palestra! Ho fatto la visita medica e sono pronto a ricominciare: questo venerdì ho già un impegno, ma dalla prossima settimana sarò di nuovo sul tatami!
Una prospettiva interessante, considerato che viene da un uomo di settantasette anni. Del resto, come Norbert ama ripetere “chi si ferma è perduto!”.