Paolo Bordin è un medico, un marito, un padre di quattro splendidi figli e, aggiunge lui stesso, un uomo fortunato. La sua vita è dedita alla medicina e alla famiglia, e il tempo libero ama profondamente dedicarlo allo sport, agli amici e alle associazioni di volontariato. Paolo ha un problema alla vista da 10 anni che lo ha costretto a rivedere un po’ tutta la sua vita. In questo percorso di adattamento ha intrapreso la via del Judo.
Come hai scoperto il judo?
Avevo degli amici che frequentavano il Dojo Shiro Saigo allora e che ci sono tutt’oggi. Nella mia “vita precedente” giocavo a pallacanestro, ma con il peggiorare della mia vista ho dovuto abbandonare la palla iniziando a correre in modo amatoriale. Cercavo qualcosa da fare in compagnia e questi miei amici mi parlarono molto bene della loro esperienza nel judo finendo per appassionare ed incuriosire anche me. Così gli chiesi timidamente se potevo provare anche io senza essere troppo di peso per questo mio problema visivo. Ed eccomi qui, ad avanzare pian piano in questo sport meraviglioso.
Il tuo problema alla vista, cosa ha cambiato nella tua vita e come lo concili con il judo?
Soffro di una grave ipovisione, tecnicamente nota come “cecità parziale”, il che mi porta a vedere delle sagome e ad avere un'idea vaga dell’ambiente intorno a me: non riesco a riconoscere né i volti né i dettagli delle cose. Tutto è nato da una miopia piuttosto aggressiva che assieme a un glaucoma hanno compromesso molto la mia vista. Questa situazione ha cambiato molte cose nella mia vita dovendo iniziare ad imparare cose diverse, adattamenti e compensazioni a ciò che non mi riusciva più naturale come prima.
L’incontro con il judo è stato stimolante,:perché è una disciplina molto bella, e, soprattutto, mi ha permesso di lavorare molto su degli aspetti che, in assenza della vista, risultano essere fondamentali per la mia vita di tutti i giorni, come l’equilibrio, la coordinazione, il controllo del corpo, la propriocezione, ecc. Quindi l’ho presa come una sfida personale.
Com’è apprendere una disciplina come il judo nella tua condizione?
Sicuramente non è un vantaggio la mia situazione, però sto imparando a considerare le circostanze e a percepire la realtà intorno a me. Così facendo riesco a capire quando posso agire sull’avversario, anche se ci sono delle cose che al momento non posso fare. Il fatto di passare da un controllo prevalentemente visivo ad uno basato su altri sensi richiede un grosso lavoro. Alle volte mi stupisco di quello che riesco a fare perché spesso non me ne rendo neanche conto, però so che devo sfruttare al massimo i miei canali propriocettivi, il contatto e tutti gli altri sensi di cui dispongo e così le cose accadono.
Non è assolutamente facile, perché imparare a fare queste cose a cinquant’anni è più complicato rispetto a una persona più giovane. Per esempio, quando devo capire come dev’esser fatto un esercizio, un gesto tecnico o come riprodurre una situazione, lo posso elaborare solo razionalmente in base alle informazioni che ricevo. Poi quando devo riproporre il gesto da solo, inizia la vera sfida. Ma come dicono anche i nostri maestri, Carlo Palmucci e Marino Marcolina, bisogna sapersi fidare e lasciarsi guidare, perché molte cose si imparano facendo e fidandoci di quello che giunge dagli altri, nel caso del judo, dal proprio Uke.
Come trovi l’esperienza del judo all’interno del Dojo?
Faccio judo da più di due anni e mi ha dato tantissimo. Ho imparato molte cose, come ad esempio a fare le capriole, a vincere un po’ di paure, a giocarmela in situazioni nuove come l’incognita del combattimento e del dover in qualche modo reagire a qualcosa che non sai come e dove sarà… Però godo di un ambiente molto leale e solidale in cui ci si aiuta: trovo che sia una cosa molto bella e piuttosto rara oggigiorno.
Avendo avuto l’onore di fare randori con te sul tatami, ho potuto saggiare la tua forza e la tua abilità, nonostante questa tua limitazione, come la vivi durante l’attività?
Citando Socrate, “io so di non sapere”: mi sento molto sprovveduto in una situazione di combattimento, perché ragionando ancora in maniera visiva, non mi vengono in mente cose da fare. Cerco tuttavia di essere spontaneo…
Però nell’essere spontaneo sei assolutamente efficace ed imprevedibile in talune situazioni!
Sì, infatti mi rendo conto che è una condizione in cui posso essere effettivamente meno penalizzato: nel corpo a corpo, a distanza molto ravvicinata, come accade nel randori a terra, riesco a giocarmela, in qualche modo.
Per il momento mi sento nella posizione di uno che cerca di “rubare con i sensi”, cercando di captare come si muove Uke, cosa fa e dove si trova attraverso il solo contatto fisico, quindi cerco di imparare il più possibile da quel frangente.
Come vedi il tuo futuro nel judo? Sai che ci sono molti atleti che hanno la tua problematica, uno di questi è Fabio Serafini che si sta preparando per Parigi 2024…
Lo vedo un po’ “offuscato” per fare una battuta; tornando seri, sono una persona molto sportiva: questa “Via” che ho iniziato mi piace ed ho intenzione di percorrerla al massimo delle mie possibilità. Per quanto riguarda “gli altri sportivi” ne vengo a conoscenza solo ora. Io nel piccolo mio farò le cose al meglio, poi vedremo che cosa mi riserverà il futuro: certamente se ci sarà l’occasione di partecipare a cose importanti non disdegnerò.
Per concludere volevo ringraziare, perché per me questa esperienza è stata una scoperta: all’inizio mi preoccupavo di non essere d'impaccio per gli altri e devo riconoscere che all’interno dello Shiro Saigo non ho mai avuto questa sensazione. Sono sempre stato accolto e guidato con chiarezza e decisione, senza ricevere pressioni o fretta di fare: questa la reputo un’abilità educativa non da poco. Le due parole che mi vengono in mente per descrivere questa mia avventura nel judo sono “bellezza” ed “educazione”. Di questo sono molto grato e spero di continuare, dando il mio contributo.