Il judo ha la natura dell’acqua: si adatta, scava, porta con sé forza e determinazione. Così sono le protagoniste di questa storia, Mariia Kunevych e Shnizana Plish judoka dell’Ivano Frankvisk Judo Club (Ukraina) che si adattano a una situazione provante, che richiede una resilienza maggiore di quella a cui si è solitamente abituati. Hanno lo sguardo fiero, su un viso giovane, eppure segnato dalla tristezza, dalla preoccupazione e dalla fatica.
Accanto a loro l’istruttrice ukraina Galya Tomyak, ex atleta della nazionale ukraina (scontratasi in una finale dei Campionati Europei a Danzica nel 1994 con la friulana Giorgina Zanette, dalla quale venne sconfitta). Per Mariia e Shnizana Galya è un riferimento in un contesto nuovo e sconosciuto, con una lingua e una cultura lontane dalla loro, in un momento in cui a farla da padrone ci sono incertezza e paura; a tenere insieme i nervi aiutano le persone che si prodigano per loro, tra sorrisi e frasi di incoraggiamento e il judo, un modo per allontanare i pensieri e concentrarsi su obiettivi che, oggi, assumono un valore completamente nuovo: aggrapparsi alla speranza di un futuro migliore.
“Shnizana e Mariia sono nate e cresciute nella palestra dove ho praticato io fin da giovanissima, per cui io ho ancora il contatto con il mio maestro, che ora è anche il loro, per quando mi servono consigli, anche se ormai sono qui in Italia. Perciò, quando il 24 febbraio c’è stata l’invasione, ci siamo sentiti subito, il giorno dopo, per capire che cosa stava succedendo: mi ha detto che erano stati bombardati, come avevano fatto con tutte le zone militarmente strategiche del Paese, specialmente quelle dove l’ex Unione Sovietica teneva le armi nucleari sotto terra e che tutti gli aeroporti erano stati distrutti. Come potevo reagire? Credo come avrebbe fatto chiunque – si schernisce Gallia – ho chiesto subito di mandarmi qualcuno dei suoi atleti, per portarli via da quella situazione terribile e pericolosa, ma anche perché non mi andava che le ragazze smettessero di seguire il loro sogno sportivo. Il maestro ha accolto con piacere la nostra richiesta: qualcuno è stato mandato in Polonia, dove si trova un altro insegnante tecnico proveniente dalla sua società e adesso impiegato lì in una scuola specializzata come centro sportivo, mentre da noi, in Italia, ha mandato queste due ragazze che sono un po’ più grandi e quindi più indipendenti”.
Come sono arrivate in Italia?
“Sono venute, almeno all’inizio, quasi contro la loro volontà: il maestro, d’accordo con le loro famiglie, non le voleva lasciare là, anche se loro non volevano venire, perché tutti vogliono rimanere, stare insieme e non lasciare la loro terra. All’inizio era così, ora invece c’è tanta paura, perché stanno distruggendo tutte le città, che, in pratica, non esistono più… comunque ci sono voluti un paio di giorni per convincerle a venire. Le hanno caricate su un bus, portate al confine con la Polonia, dove hanno smistato tutti in vari gruppi con l’aiuto della Croce Rossa. Sono state ospitate per una notte e sono ripartite il giorno dopo, mandate prima da amici e parenti già residenti in Italia, per ospitarle i primi giorni. Da lì, le ragazze, con l’aiuto della Croce Rossa di Viterbo, sono state portate a Latina: noi eravamo in gara a Ostia per i Campionati Italiani Cadetti quando sono arrivate!”
Galya, tu quando sei arrivata in Italia?
Sono passati molti anni: mia mamma viveva già qui, a Viterbo e io ero venuta a stare un po’ con lei in un momento in cui mi stavo preparando per partecipare ai Campionati Europei con la nazionale ukraina e, contemporaneamente, avevo iniziato a praticare a un buon livello il sambo. Purtroppo, in un incidente banale mi sono infortunata pesantemente al ginocchio: in nazionale mi sono ritrovata a non essere più una titolare, ma una sostituta, nella speranza di rimettermi in sesto per gare future, ma, di fatto, la mia carriera agonistica è finita in quel momento.
A quel punto ho avuto l’occasione di rimanere in Italia e allenarmi presso una storica società di judo di Latina, dove ho conosciuto Bruno Pecoraro, che, all’epoca, faceva parte delle Fiamme Oro: siamo stati compagni di palestra e amici per diversi anni: abbiamo dovuto affrontare cambi di società, dovuti a chiusure e problematiche comuni a molte Società Sportive. Nel 2016 abbiamo iniziato a essere anche una coppia nella vita, oltre che sparring l’uno per l’altra sul tatami e da ottobre 2020 la nostra società sportiva, il Judo Shihan Sermoneta, ha una nuova sede al Palafight, in provincia di Latina.
Bruno, che cosa significa fare judo insieme e essere una coppia nella vita?
Significa supportarsi e sopportarsi, del resto, è tutto lì.
Galya, che cosa significa per te aver accolto le tue connazionali in questo momento?
“Sento di aver fatto almeno qualcosa di utile: io sono molto patriottica e credo che, permettendo loro di continuare a praticare judo e fare gare, posso aiutarle a far sentire che l’Ukraina esiste. Shnizana ha un fratello che è stato arruolato, così come tanti suoi coetanei dai 18 anni in su, mentre i più giovani, ragazzi di 15-16 anni, si sono arruolati come volontari. Ma anche quello che fanno le persone comuni è molto importante: accogliere, aiutare… credo che non sia la lingua a fare la differenza, ma il cuore. Lo ha dimostrato il DLF Yama Arashi Udine, in particolare Milena Lovato, che avevo chiamato per capire come iscrivere le ragazze, per far fare loro una gara e distrarle, vista la situazione: lei mi ha subito detto che le ragazze sarebbero state ospiti della Società, per iscrizione, vitto e alloggio. È stata una risposta così immediata e spontanea, che ancora adesso che ne parlo, ho i brividi!”
Quali sono le emozioni che prevalgono in questo fine settimana di gara?
“Il pensiero prevalente è sempre a casa – dice Shnizana cercando di nascondere la commozione -. Stiamo cercando di concentrarci per domani, quando saliremo sul tatami: combattere è il nostro piccolissimo modo per dare forza a chi è rimasto a casa, ai nostri genitori, ai nostri fratelli, per i quali la parola combattimento adesso assume un significato diverso.
“Si cerca sempre di scindere le cose – specifica il Maestro Bruno Pecoraro del Judo Shihan Sermoneta di Latina – altrimenti anche soltanto essere qui sarebbe impossibile”
“Siamo venute qui cercando di immaginare che stavamo andando a fare uno stage, un allenamento – aggiunge Mariia – perché questo aiuta a pensare a una normalità che in questo momento non c’è. Non è che vogliamo fuggire tutto ciò che sta capitando nel nostro Paese, ma i nostri genitori ci hanno mandato qui e il nostro compito è dare il meglio in quello che facciamo.”
È la prima volta che venite in Italia? Che cosa ne pensate?
“Sì – rispondono all’unisono – e ci piace tanto! La gente è molto ospitale” “Anche perché hanno conosciuto il Maestro Bruno!” scherza il Maestro Pecoraro.
“il Maestro, quando ci viene la malinconia, inizia a scherzare: lui non parla la nostra lingua, noi stiamo iniziando a dire qualche parola in italiano, ma ci capiamo a gesti, soprattutto per quanto riguarda il judo, quando Galya non c’è a farci da tramite, lui trova comunque il modo di farsi capire”
“Qualcuno dei ragazzi ha detto che dovrebbero dargli la laurea per come parla con i gesti!" spiega Galya ridendo.
Maestro Pecoraro, quanto è impegnativo tutto questo e quanto dà in cambio?
“Certo, è molto impegnativo, perché non riuscendo a comunicare a voce l’interazione sociale ne risente parecchio. Però, grazie al mio traduttore, il Maestro Galya, piano piano stiamo riuscendo a capirci… e poi, una parola alla volta, stanno imparando l’italiano e così ci capiamo sempre meglio. La cosa più difficile è evitare di toccare nei discorsi, quei punti che si immagina a loro potrebbero fare male. Siamo comunque contenti di poter fare un percorso insieme fino a quando non si risolvano le cose in Ukraina. Nel frattempo i genitori dei nostri ragazzi si stanno prodigando per ospitarle e farle sentire a casa per quanto possibile”.
Ci salutiamo, l’in bocca al lupo per la gara nasce spontaneo. Le ragazze non sanno ancora come rispondere a tono, ma sorridono e pronunciano alcune delle prime parole che hanno imparato nella nostra lingua e che pronunciano con gli occhi, prima ancora che con la bocca: “grazie, ciao”.