Gentilezza, affabilità, determinazione. E tanta voglia di raccontarsi e condividere con generosità. Il ventinovenne Kotaro Sasaki, ex coach della nazionale polacca, incontrato allo Skorpion Stage di Piancavallo a primavera, si racconta a 360°, dagli esordi sul tatami nel dojo del padre al futuro fatto di judo, con progetti ambiziosi e fuori dagli schemi.
In precedenti interviste hai dichiarato che il tuo obiettivo come insegnante è quello di combinare lo stile di judo europeo con quello giapponese. Stai riuscendo nel tuo intento?
La mia idea originale era di combinare la fisicità europea e la tecnica giapponese: anche in Giappone abbiamo dei judoka agonisti di alto livello dalla corporatura imponente, ma, per lo più, siamo di medio bassa statura, quindi inferiori da un punto di vista fisico. Dal punto di vista tecnico ritengo che siamo superiori perché abbiamo un modo molto più dettagliato di intendere le tecniche. Perciò il mio judo ideale sarebbe composto di un ibrido delle due componenti: fisicità europea e tecnica giapponese. Ci sto lavorando.
Non ritieni che a volte alla componente fisica sia data troppa attenzione a discapito di quella tecnica?
La componente atletica è necessariamente allenata perché è importante per conferire un judo forte e stabile ed elevare la percentuale di vittorie, ma ritengo non debba sopraffare quella che è la preparazione e l’esecuzione tecnica dell’atleta, per questo punto alla creazione di un judo ibrido.
Il concetto principale del judo è di rimanere in piedi mentre l’avversario viene proiettato a terra. Molto spesso, ai giorni nostri, si vedono esecuzioni tecniche, anche di atleti molto forti, che puntano a eseguire movimenti spettacolari, che, in caso di successo, possono far ottenere un ippon. Però io preferisco non insegnare quel genere di movimenti, chiamati kishu waza, perché si tratta di tecniche improvvise, eseguite contando sull’effetto sorpresa scatenato nell’avversario. Sono tecniche che possono funzionare soltanto qualche volta, ad esempio kata guruma, sumi gaeshi, tomoe nage, ippon seoi nage in ginocchio, perché se si ripetono spesso, ormai l’avversario se le aspetta e ti blocca a terra. Sono dell’idea che, se si riesce a tornare immediatamente in posizione di tachi waza, una volta che il tentativo sia andato a vuoto, allora è ok; ma se, invece, come spesso capita, si rimane in una posizione da cui è impossibile tentare altri attacchi, si rischia l’ammonizione per falso attacco. Il judo in piedi ha senso se eseguito da una posizione eretta.
Sei originario della Prefettura di Shimane, dove il sumo è molto praticato. Cosa rappresenta il Sumo per te?
Sì, pratichiamo Sumo anche nell’allenamento di judo e anche a scuola: quando abbiamo del tempo libero, in momenti di ricreazione, disegniamo semplicemente una riga a terra, sulla sabbia, con un legnetto e ci riuniamo tra amici, entrando nel cerchio a combattere a turno. Trovo il sumo elegante e vicino agli dei in qualche modo. Noi siamo per lo più shintoisti in Giappone: abbiamo molti dei e crediamo anche nell’animismo. Crediamo che ogni oggetto abbia una propria essenza speciale, per cui dobbiamo avere rispetto per tutto e non gettiamo a terra le cose malamente, perché ogni cosa ha il suo spirito, per così dire, non so se sia la definizione corretta; di certo trattiamo ogni cosa in maniera gentile. Non so se si possa definirla una vera e propria religione, ma il punto è che ha molta attinenza con il sumo, perché è molto vicino alla storia della nascita del Giappone. Secondo la nostra mitologia, infatti, il sumo è nato quando due dei hanno iniziato a combattere per conquistare maggior controllo sul territorio l’uno dell’altro e questa è la storia dell’origine di tutte le discipline di combattimento nel nostro Paese. La componente rituale/religiosa è molto visibile quando si assiste a un incontro: spargono sale prima del combattimento per purificare il luogo, si fissano negli occhi cercando la concentrazione, praticano dei rituali… e non compiono movimenti senza un senso. Tutto ciò che fanno rappresenta in qualche modo l’attenzione verso l’ambiente che li circonda ed è strettamente legato al nostro concetto profondo di religione e di combattimento rispettoso.
Hai due fratelli e una sorella: vivono ancora in Giappone?
Mio fratello minore di due anni [ndr Takeshi Sasaki, vincitore nel 2022 dei Campionati Asiatici e medaglia d’oro ai Masters 2018 a Guangzhou] è un judoka professionista. Sta tornando alle competizioni dopo un infortunio; mia sorella, che ha quattro anni in meno, [ndr Chie, vice campionessa Mondiale Cadetti nel 2015 e un oro all’European Open di Bratislava nel 2020] si è sposata poco prima di interrompere la sua carriera agonistica. Infine, c’è mio fratello più piccolo, [ndr Yudai, di 23 anni], che è diventato un coach di judo all’interno del nostro dojo a casa, dove insegna mio padre.
Quando ancora eri un giovanissimo judoka hai girato molto il Giappone per praticare judo con diversi avversari.
Esatto. Volevo incontrare bravi judoka e buone tecniche. Ho trovato tecniche “magiche” in differenti città, come Osaka, Kyoto, Hiroshima, e altrettanti forti judoka, ciascuno col proprio “speciale”. Quando frequentavo l’Università di Tokai il mio sogno era quello di diventare un atleta professionista e, nello stesso tempo, un buon coach. Ho dato il massimo per cercare di realizzare il mio primo sogno, ma ho anche iniziato a studiare per diventare un buon insegnante, così come lo è mio padre. Ho studiato per prendere la licenza da insegnante in Giappone: la maggior parte dei club sono connessi al sistema educativo all’interno delle scuole. Per cui prima è necessario essere un insegnante di scuola e poi un coach di judo. Io ho studiato per diventare un insegnante di inglese. Ciò che ho capito incontrando atleti di buon livello, prima di mettermi a insegnare, è che esistono di certo judoka giapponesi molto forti, ma che anche in giro per il Mondo ce ne sono tantissimi molto bravi e rispettosi del judo cosiddetto “old style”. Il mio compito è far sì che ciascuno dei miei atleti, pur avendo rispetto dei fondamentali, sviluppi un proprio modo di praticare il judo che gli permetta di esprimersi al massimo.
Qual è il tuo campione preferito di tutti i tempi?
Io tiravo ippon seoi nage, per cui Koga Toshihiko Sensei è sempre stato di grande ispirazione per me e l’ho sempre ammirato molto, così come Tadahiro Nomura per il suo morote seoi nage, un’altra tecnica estremamente difficile; per lo stesso motivo, l’estrema difficoltà di esecuzione, Kosei Inoue… ho molte persone alle quali guardo ancora per ispirarmi. Avevo bisogno di sentire su di me come viene tirato il miglior morote, il miglior uchi mata, il miglior o uchi gari… ho raccolto tutte le informazioni che ho potuto.
Hai anche avuto la fortuna di venire a contatto con questi grandi campioni e insegnanti…
Sì, ad esempio Inoue, che è stato mio insegnante a Tokai. Recentemente ho avuto anche il piacere di fargli da uke durante un suo stage: credevo si trovasse in Francia, ma quando mi hanno detto che si era spostato in Belgio per tenere questo stage, ho cambiato il biglietto aereo e sono volato lì soltanto per potergli fare da uke! È stata un’esperienza bellissima, perché l’atmosfera che riesce a creare, il judo che mostra, gli atleti che vengono da tutto il Mondo per assistere alle sue lezioni, sono unici. Ogni movimento che fa è perfetto e coinvolgente: da uke riesco a percepire, attraverso i suoi movimenti, quello che vuole e gli serve.
Dove vivi attualmente?
Vivo a Varsavia, in Polonia. Non alleno più la Nazionale, ma mi piace vivere qui. Mi piace anche viaggiare e mantenermi in contatto con gli atleti. Ora lavoro in un club e ciò che desidero è imparare a esprimermi correttamente in polacco, per riuscire a interagire con la gente, con i coach, i fisioterapisti, i presidenti. La comunità polacca mi sta stimolando a imparare. Mi sento ancora un principiante quando parlo con le persone, ma loro sono molto carini e mi rispondono educatamente.
Ti senti un cittadino del mondo o come un giapponese all’estero?
Credo che, al di là di dove mi trovo, la mia vera casa sia il tatami! È il posto dove passo la maggior parte del mio tempo. Il mio luogo di nascita si trova in Giappone, ovviamente, ma tanto io quanto i miei amici di infanzia ci siamo spostati dalla nostra città natale ed è sempre più difficile riuscire a incontrarci, per cui ormai la comunità giapponese all’estero è la mia seconda famiglia.
Che cosa ti manca di più del Giappone?
Il cibo! E la famiglia. E gli amici. E la natura giapponese: l’acqua, le foreste, l’oceano… l’oceano europeo è diverso… il mar Baltico su cui si affaccia la Polonia è abbastanza freddo, non sono acque in cui farsi un bagno, a meno di non voler sentire i brividi, né dove stare sulla spiaggia. Amo nuotare! In Giappone l’acqua è come un brodo!
Qual è il tuo cibo preferito?
Cream Stew: è una specie di zuppa con latte, pollo, broccoli, carote e cipolla. E poi il riso: amo il riso, lo mangio ogni giorno in Polonia. È diverso dal riso giapponese, ma ha un sapore simile.
Che cos’è il judo per te?
È tutto! Vorrei fare molte cose, ma non sempre ne ho il tempo, perché do la precedenza al judo, è la parte prioritaria della mia vita. Mi dà l’educazione, il lavoro, ha a che fare col cibo…
Porti il tuo concetto di judo nella tua vita anche con persone che non lo praticano?
Sai quando prima parlavo del Sumo che è strettamente correlato alla religione e allo Shintoismo e richiede di avere gentilezza con ogni oggetto, oltre che con ogni essere vivente? Credo nel judo sia necessaria la stessa attenzione, anche se forse porta con sé maggior aggressività, anzi, forse proprio per questo è necessario imparare a controllarsi e a gestire i nostri istinti: se l’aggressività avesse la meglio sul nostro modo di agire saremmo animali a tutti gli effetti. Dobbiamo imparare i veri valori del judo e il mio obiettivo è trasmetterli nel mondo, ma non in maniera circoscritta ai judoka, bensì toccando diverse persone e aspetti delle loro vite. Ho un sogno ambizioso: desidero portare il judo nel mondo della moda. Ho trovato dei buoni fornitori di judogi e vorrei fare divenire il judogi un capo di abbigliamento utilizzabile anche nel camminare per strada e voglio iniziare proprio dalla Polonia. Certo, l’intera idea è ancora in fase embrionale: devo ancora fare dei disegni, creare, fare delle prove, ma ho un’immagine ben chiara di dove voglio arrivare. A volte abbiamo bisogno di essere classici, come quando indossiamo il judogi bianco, a volte dobbiamo distinguerci, come quando indossiamo il judogi blu. Voglio sottolineare questa doppia sfaccettatura e anche trasmettere quella sensazione di tendere alla migliore versione di noi stessi che il judo trasmette.
Personalmente hai preferenze tra judogi bianco e blu?
Mi piace molto il judogi blu, perché quand’ero piccolo per me rappresentava il fatto di partecipare a delle competizioni internazionali e quindi essere un professionista e non ha mai smesso di esercitare questo tipo di fascino su di me. Certo, il judogi bianco è molto pratico e altrettanto bello, ma il bianco si macchia facilmente, per cui bisogna stare attenti!
Che cosa c’è nel tuo futuro?
Voglio rimanere in Polonia e insegnare judo, ma non ho ancora deciso dove né come. Amo la Polonia, sono coinvolto nella comunità di judo locale e voglio restituire con un contributo che sia significativo quanto mi è stato dato finora, l’ottima accoglienza ricevuta. Vorrei fondare un mio dojo, in futuro, se sarà possibile.