L’occasione di una giornata nella bella città croata di Poreč è nata dalle fasi conclusive del progetto Erasmus Plus Judo Moral Code, alle quali la Polisportiva DLF Yama Arashi Udine, partner del progetto insieme alla Federazione croata di judo, il Judo savez Primorsko-Goranske Županije di Rijeka e il Golovec Judo Club di Ljubljana, ha preso parte, rappresentata da Milena Lovato, Sofia Cittaro, Mirko Tambozzo e Mara Zuliani.
Obiettivo della giornata era quello di spiegare e far provare a giovani provenienti da Slovacchia, Olanda e Grecia, in occasione dell’EJU Kids Camp - inserito nel più ampio EJU Judo Festival – i giochi ideati e proposti per insegnare alle future generazioni i valori più autentici e profondi del judo: onore, modestia, educazione, rispetto, autocontrollo, amicizia, sincerità e coraggio.
Un contesto internazionale di grande livello e spessore, in cui queste giornate di festival sono scorse veloci tra sessioni di allenamento sul tatami e conferenze in cui sono stati presentati studi svolti nell’ambito di progetti Erasmus Plus, come l’affascinante lavoro sul calo-peso salutare di Raka Sraka, campionessa slovena, sulle cui esperienze personali si fonda il concetto alla base del progetto di fresco avvio “Safe and Strong” in cui la Polisportiva DLF Yama Arashi Udine è, anche in questo caso, partner.
A condurre gli allenamenti, mattutino e pomeridiano, sul tatami un ospite d’eccezione, l’ex atleta portoghese Nuno Delgado, bronzo a Sydney 2000, ora componente del settore educativo per l’EJU e direttore tecnico della Scuola di Judo che porta il suo nome.
Ad affiancarlo per l’occasione, Shunsuke Mukai (figlio del Maestro del Kodokan di Tokyo Mukihiro Mukai che lo scorso fine settimana ha tenuto uno stage tecnico in occasione dell’Hoče European Judo Hopes Cup in Slovenia) coach giapponese in terra croata, valido elemento del Judo Klub Rijeka, che ha mostrato alla platea di giovanissimi due tecniche, o soto gari e sasae tsurikomi ashi.
Nei momenti precedenti alla lezione del mattino il Maestro Delgado ha radunato i coach presenti per spiegare come si sarebbe svolta la sessione di allenamento, quali obiettivi si prefiggeva e, soprattutto, l’atteggiamento da tenere nei confronti dei ragazzi e l’importanza di dare loro l’esempio, in primis con il nostro comportamento.
Al termine della sessione pomeridiana Nuno Delgado si è gentilmente messo a disposizione per rispondere ad alcune domande.
Qual è il maggior valore che il judo Le ha insegnato?
Jita kyoei, il principio cardine del judo, perché significa tutto. Nella mia esperienza Jita Kyoei significa diventare forti al fine di essere utili. Ritengo sia molto importante, perché il judo ci insegna come vivere all’interno della Società.
Che cosa si porta a casa al termine di questa esperienza?
Be’, non è ancora finita, ma penso che sia una grande opportunità: è un posto bellissimo, il tempo è meraviglioso, la gente fantastica! Possiamo imparare gli uni dagli altri, anche qui nel principio del Jita Kyoei, perché possiamo diventare più forti attraverso le interazioni con i nostri partner e ambire quindi a essere più utili all’interno dei nostri club.
Che cosa è importante che gli studenti si portino a casa dopo un evento di tale portata?
Credo sia l’esperienza in se stessa. Quando ho preso parte per la prima volta a un evento educativo EJU – è stato nell’Università di Bath, dove ho studiato per due anni – le informazioni e le conoscenze scambiate con i miei partner e i miei amici sono state molto intense. Questi partner erano Daniel Lascau, ora a capo dell’IJF, Mr Mike Callan, Kosei Inoue…. Credo che nel judo non si sia mai troppo piccoli per insegnare, né troppo grandi per apprendere.
Che cosa ha rappresentato il judo per Lei quand’era un atleta e che cosa rappresenta ora?
Ho iniziato judo quando avevo 8 anni, ora ne ho 48. Soffrivo di dislessia e iperattività. La vita era una grande confusione per me. Inoltre, dal mio Paese, in Portogallo, sono stato mandato a Komani in Africa, per cui la confusione nella mia mente era ancora più grande. Per cui, quando sono salito sul tatami ho trovato regole, relazioni, un insegnante cui fare riferimento e mi sono sentito finalmente al sicuro e, allo stesso tempo, mi ha aiutato a concentrare la mia energia. A volte potevo girovagare per il tatami e trovare il modo di divertirmi in maniera spensierata, a volte avevo la necessità di concentrarmi completamente. E quest’ambivalenza ha rappresentato per me un invito a iniziare a competere, perché mi ha aiutato a trovare me stesso. Sono diventato campione europeo, poi ho vinto la medaglia olimpica e questa ricerca è ancora in corso. Quando partecipai nuovamente alle Olimpiadi, visto che erano vicine [NDR Atene 2004, dove Delgado venne sconfitto ai sedicesimi dal nostro Roberto Meloni], pensai “ok, il mio viaggio è finito!” Invece non era finito, perché adesso sono un insegnante e tutti i miei studenti e tutte le persone con le quali interagisco sono le mie medaglie.
Si sente un modello per i giovani?
Credo sia difficile dire una cosa del genere… sento la responsabilità per l’influenza che potrei avere sugli altri. Tutti noi siamo modelli. Personalmente rispetto molto la conoscenza che è propria dei bambini. Molto spesso, quando parliamo ai bambini, lo facciamo da una posizione di superiorità come se noi avessimo una conoscenza maggiore. Tendiamo però a dimenticarci che i bambini hanno una maggior sensibilità rispetto a noi e una percezione più acuta della realtà, per cui dovremmo guardare ai bambini come nostri modelli. Come coach di judo puoi aiutarli, ma sono loro a essere i responsabili e ti insegnano moltissimo nel judo, perché ti mostrano qual è la via e come insegnare a loro. È necessario essere molto umili per diventare un buon coach.
Qual è il sentimento principale quando inizia una lezione e quale quando la finisce?
Quando inizio sento che ho bisogno di allenarmi: ho smesso per un paio di anni di allenarmi ed è stato il peggior periodo della mia vita. Ho bisogno di salire sul tatami per esprimere pienamente me stesso. E quando ho finito la lezione sento solamente che sono in pace con me stesso: il mio corpo è stanco e la mia mente è attiva.
Da dove viene tutta quell’energia che riesce a esprimere sul tatami quando insegna?
Quando sono sul tatami l’energia negativa viene spinta fuori, per fare spazio all’energia positiva!
Che consigli si sentirebbe di dare a un insegnante di judo, soprattutto a quelli che sono a volte poco motivati?
Ciò che mi sento di dire è che dobbiamo sentire la responsabilità del nostro lavoro: siamo educatori, non siamo insegnanti di astuzie da combattimento, come avviene a volte in altre discipline o come si propongono insegnanti di altre discipline. Abbiamo scelto un’altra strada, siamo educatori, possiamo cambiare la vita di una persona per sempre. Mi sento molto importante in questo senso: sono un maestro per la vita. E quando fai tuo questo concetto acquisisci una ricchezza emotiva e accetti meglio anche i lati negativi dell’essere coach e trovi la motivazione. Ma devi aver rispetto di te stesso: in Giappone l’Imperatore si inchina solamente di fronte agli insegnanti, l’insegnante dovrebbe essere considerato la persona più importante nella nostra società. Se riesco a maturare questa consapevolezza e questa autocoscienza, credo divenga molto difficile non essere motivati. Ho 48 anni e a volte mi ritrovo davanti persone che sono state miei studenti vent’anni fa e che mi dicono quanto sia stato speciale il periodo durante il quale gli insegnavo il judo e questo mi fa sentire importante. Ciò che ne ricavo è un valore non economico, ma molto più significativo. Certo, il denaro aiuta nella vita [ride]!
C’è un cambiamento che Le piacerebbe realizzare per il judo?
Non so se ho il potere di portare un cambiamento nel judo… voglio dire, il judo cambia me in maniera costante e questo è un riflesso di ciò che io posso fare. Credo che per cominciare dovremmo porre gli insegnanti di judo nel punto più importante di una società sportiva, mentre ora ho l’impressione che si trovino sul gradino più basso, perché ci sono gli atleti, che sono quelli che collezionano vittorie per il club, le cinture nere, gli atleti olimpionici… tutte figure importanti, ma senza i maestri, non sarebbero niente. Così come anche i direttori tecnici, i presidenti, tutte queste figure esistono perché esistono i coach di judo, altrimenti non esisterebbero. Puoi praticare judo senza il tatami, senza il judogi, praticamente senza niente, ma non senza un insegnante. Per questo motivo, ciò che nell’EJU ci interessa implementare nel settore educativo è che vogliamo trovare un modo per mettere gli insegnanti al primo posto. Questo perché esistono gli insegnanti e i coach di judo e questi ultimi sono dei professionisti, già pagati e ripagati dalle vittorie e dai premi. Come possiamo valorizzare gli insegnanti le cui medaglie consistono nella valorizzazione delle persone al di là dei risultati agonistici? Ciò che fanno ogni giorno è impalpabile, ma dobbiamo riconoscere il loro lavoro e il loro impegno, in modo da avere a che fare con persone più soddisfatte, bilanciate, gratificate e felici. Soltanto così potremmo iniziare a lavorare per il futuro.
Oggi ha proposto un sistema di allenamento vissuto come un gioco di ruolo, in cui, a turno, i ragazzi impersonavano il ruolo dell’arbitro e del coach, oltre a quello degli atleti. Quanto è importante per la loro crescita imparare a mettersi nei panni degli altri?
Il judo insegna come comportarsi nella vita. Per questo, il primo compito importante da portare a termine per un judoka è quello di avvertire il senso di responsabilità. Credo che, a volte, il modo in cui insegniamo judo a un nuovo allievo lascia intendere che all’interno di una coppia di judoka c’è uno che è attivo (tori) e l’altro che è passivo (uke). Questo modo di intendere il judo è errato, perché se uke non è attivo, tori non può vivere un’esperienza soddisfacente. E anche per chi tiene la lezione in quel momento, dare diversi ruoli a chi è sul tatami e riceverne i feedback, dà la possibilità di osservare e di assurgere al ruolo di supervisor. Nella mia esperienza la migliore visuale per un coach è proprio quella data dal porsi come supervisor, perché ti mette nella condizione di vedere tutto e apportare soltanto piccoli aggiustamenti e continuare a costruire sulla base di quanto appreso. Di solito, con questo sistema non devi per forza insegnare, ma dai loro lo spazio per crescere e, allo stesso tempo, invece di lavorare a coppie di due, lavori a gruppi di tre, quattro persone, riducendo così lo spazio necessario sul tatami e lavori a più livelli con figure diverse. E se inizi a farlo con bambini fin da quando sono piccoli, ma già hanno la capacità di comprendere un minimo quello che gli stai facendo fare, poi ti trovi con atleti molto più consapevoli. Di fatto gli fornisci quella che era la cultura di Jigoro Kano, fai in modo che gli studenti ragionino e decidano e rispettino l’ambiente in cui si trovano e ci mettano anche maggior attenzione, perché si osservano tra loro, per capire bene che cosa fare ed evitare di fare brutte figure quando arriva il loro turno. In più, con questo sistema, mano a mano che lo si sviluppa, non sono più io singolo a essere coach sul tatami, ma sto crescendo altri coach, altri giudici, altre persone consapevoli che possono/potranno in futuro darmi una mano in palestra e essere a loro volta dei riferimenti nel nostro ambiente sportivo.
Photo Credits: Gabi - Juan EJU