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Judo

Rubrica “Judo, combattimento e cultura” a cura di Marcello Ghilardi

In questi mesi estivi e di fermo dalle attività di routine dei nostri club, diamo inizio alla pubblicazione di una nuova rubrica “Judo e cultura” a cura del filosofo Marcello Ghilardi*. Scopo di questi scritti è di trattare le origini della nostra disciplina e alcuni dei sui principi fondatori per informare e dare spunti di riflessione a tutti i noi praticati di judo.

Buona lettura e buona estate dal CR Lombardia  judo

autore

*Marcello Ghilardi è docente di Estetica e di Philosophy of Interculturality all’Università di Padova, presso la quale è anche vice-direttore del Master in Studi Contemplativi. È socio fondatore del gruppo di ricerca internazionale sulla filosofia interculturale Mushin’en e membro dello European Network of Japanese Philosophy, nonché autore di numerosi saggi e monografie su diversi temi legati alle arti e al pensiero di Cina e Giappone. Ha iniziato la pratica delle arti marziali e di discipline di combattimento nel 1986, studiando in particolare la boxe cinese (sanda) e alcuni stili di wushu e di kungfu (changquan, shaolinquan, taijiquan, xingyiquan); è inoltre 3° dan di kendo e 1° kyu di judo.

 

 

  • Da bujutsu a budō (1)

Le tradizioni marziali dell’Asia orientale hanno subito tra il XVII e il XX un processo di trasformazione tecnica e di “trasvalutazione” che ha saputo rinnovarle e vivificarle, e che per molti versi continua tuttora. Da tecniche di combattimento da impiegare sui campi di battaglia avendo come unico scopo la sconfitta e spesso la morte dell’avversario, sono progressivamente divenute discipline del corpo e del cuore-mente-spirito.kanji

Le due epoche decisive per la formazione di un nuovo ideale di “via” (道) legata all’apprendimento di tecniche di combattimento sono identificabili nella lunga epoca Edo (o Tokugawa: 1601-1868), dopo l’unificazione del Giappone avvenuta tra la fine del xvi e l’inizio del xvii secolo e la mutazione dell’assetto politico, sociale e culturale avvenuta con l’apertura al mondo occidentale nel corso dell’epoca Meiji (1868-1912). Nella prima di queste due fasi, il problema di fondo della classe militare dei bushi 武士 fu quello di convertire le proprie abilità e abitudini, elaborate nel corso di secoli di guerre, in valori e comportamenti adatti a un’epoca di pace, quando il morire in battaglia non era più una eventualità quasi quotidiana, né tantomeno un ideale a cui aspirare. Nella seconda fase un editto governativo proibì ai bushi il porto d’armi, per cui le due spade tradizionali (daisho 大小, “grande e piccola”) che sancivano la loro appartenenza alla classe militare del paese non furono più il simbolo che li distingueva dal resto della popolazione, e a maggior ragione le loro forze e capacità dovettero essere convertite in altri compiti, di natura più civile e burocratica. «La trasvalutazione che ha avuto luogo grazie a una sorta di gioco di prestigio linguistico e valutativo è un’operazione affascinante che dimostra la flessibilità del linguaggio e dell’atteggiamento di cui sono capaci gli esseri umani. La disponibilità a morire all’istante […] diventa una consapevolezza generalizzata ed estesa alla transitorietà inerente a tutte le cose, soprattutto alla vita umana» (W.L. King, Lo zen e la via della spada, tr. it., Roma 2000, p. 140).

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, la questione sarà poi quella – di carattere sociale e non solo individuale – di convertire la disponibilità a una morte onorevole, affrontata ad occhi aperti, nella capacità di vivere pienamente per contribuire al miglioramento della collettività. La triste e drammatica fase del militarismo giapponese degli anni Venti e Trenta, nella quale furono implicati anche molti monaci o esponenti di spicco dello shintoismo e del buddhismo, ha mostrato quanto facilmente alcuni ideali possano venire traviati e convertiti nel loro aspetto più deleterio (come ha mostrato, in modo lucido nel suo documentatissimo libro di Brian Victoria, Lo zen alla guerra, tr. it., Cuneo 2001). Ciò che qui interessa è la formazione progressiva di una nuova idea di educazione tramite il corpo, l’elaborazione di nuovi significati legati a una gestualità antica, la costruzione di una nuova immagine tanto delle discipline definite in Occidente “arti marziali” quanto dei loro praticanti. Insieme a queste trasformazioni, emerge in quegli anni anche la consapevolezza di una nuova possibilità educativa, proposta con ardore da Kanō Jigorō, il fondatore del Kodōkan jūdō 講道館柔道.

Il passaggio dal suffisso jutsu 術 al suffisso 道, che contraddistingue il divenire di molte discipline marziali nella fase che coincide proprio con le epoche Meiji e Taishō (1912-1925) è significativo, nel suo implicare una trasformazione complessiva di valori e una nuova consapevolezza. Jutsu è un termine che può essere accostato al greco techne, o al latino ars: “arte” nel senso di specifico di “tecnica”, abilità ad eseguire un particolare lavoro secondo regole, capacità specifica che si acquista con l’esercizio e che mette in grado di compiere una certa operazione con particolare efficacia – come quando si dice che qualcosa è “fatto a regola d’arte”, appunto. Discipline come il jūjutsu 柔術 e il kenjutsu 剣術 erano essenzialmente tecniche finalizzate a uscire vincitori da un combattimento che poteva senz’altro essere mortale; l’idea di Kanō, che cerca di pensare all’utilità che può avere una tecnica di lotta a mani nude sul finire del XIX secolo, è quella di mantenere e allenare la maggior parte di tali tecniche strutturandole e finalizzandole a un principio educativo, e riducendo al minimo i rischi per l’incolumità di chi le pratica.

柔 significa “adattabilità, flessibilità, cedevolezza”. È un principio di origine taoista che assegna alla capacità di maturare e mantenere una elasticità fisica e mentale un valore di gran lunga maggiore rispetto a una forza fisica rigida, rispetto alla staticità e alla caparbia volontà di permanere sempre identici a se stessi. Jūjutsu è quindi la “tecnica della flessibilità”, intesa come capacità di sfruttare a proprio vantaggio il movimento dei corpi di due combattenti affinché il meno forte muscolarmente o il meno dotato da un punto di vista della struttura fisica possa prevalere grazie a un accorto uso di squilibri, sbilanciamenti e leve articolari. Analogamente, kenjutsu è la tecnica di combattimento legata all’uso della spada (ken), tanto più perfetta ed efficace quanto più rapidamente metteva in grado uno spadaccino di liberarsi dell’avversario. Bujutsu 武術è il nome che riassume complessivamente le tecniche guerriere adottate e raffinate per secoli sui campi di battaglia. Bu 武 è infatti il carattere di origine cinese che indica la dimensione guerriera, militare, marziale. È composto da due parti giustapposte: una, più esterna e a destra, che richiama l’idea di una “lancia” o “alabarda” (戈) e una che esprime il verbo “fermare, bloccare” (止). I due sensi complessivi che si possono evincere da questo carattere sono quindi sia “fermare le lance”, cioè arrestare il conflitto, uscire dalla catena di azione e reazione che produce e riproduce il comportamento violento e mortale; oppure “lancia che ferma”, alludendo alla necessità dell’impiego di armi come estrema risorsa per risolvere situazioni problematiche. Sarà sul primo significato che si concentreranno i maestri di arti marziali nella modernità, attraverso un lavoro di ri-codificazione delle proprie discipline, puntando in alcuni casi su un nuovo concetto di trasformazione di sé e di educazione.

  • Il mutamento complessivo si può quindi descrivere come passaggio dalla cultura del bujutsu a quella del budō, in cui il nuovo suffisso esprime appunto un nuovo atteggiamento nei confronti delle arti militari (bu). 道è il carattere, in cinese pronunciato Dao (o Tao), che significa “via, percorso, processo”. La tradizione giapponese l’ha fatto assurgere a significante ideale per quel particolare percorso di evoluzione personale che si incarna in un principio morale, di consapevolezza della dimensione relazionale di un “sé” liberato da ogni residuo di egoismo, un sé “risvegliato”, unificato, che ha saputo integrare le proprie migliori energie ed è in grado di contribuire alla collettività. Rispetto al bujutsu della tradizione guerriera, insieme di tecniche necessarie per sopravvivere nelle frequenti guerre combattute sul campo, il budō moderno si differenzia per il fatto che «consiste di vari sistemi usati come pratiche spirituali e culturali, forme di esercizio fisico e di educazione, metodi di autodifesa individuale da usarsi nella vita quotidiana, attività atletiche e ricreative, sport» (D.F. Draeger, Bujutsu e budo moderno, vol. 3, tr. it., Roma 1998, p. 59). L’ideale propugnato dalle diverse forme di disciplina marziale mira esplicitamente alla costruzione di una personalità unificata, non scissa o alienata, e di una società armonica – anche se questo obiettivo resta sempre di difficile attuazione, e da molti praticanti viene disatteso o addirittura ignorato. Dagli stili di jūjutsu praticati nei primi anni della sua formazione marziale, quelli delle scuole (ryū流) Tenjin shin’yō 天神真楊e Kitō 起倒, (due scuole comunque non antichissime: la prima fondata probabilmente nella prima metà dell’ottocento, la seconda intorno alla metà del Seicento) l’intuizione dell’ancora giovane Jigorō fu non solo quella di ridurre il tasso di pericolosità delle tecniche, ma di pensare alla pratica di una disciplina di combattimento come metodo ( 法) generale per la formazione dell’umano: «Il jūdō che io ho cominciato a spiegare, fin dal principio non è semplicemente bujutsu o budō, ma è un grande metodo per l’essere umano che comprende combattimento e cultura» (J. Kanō, Kōdōkan jūdō gaisetsu 講道館柔道概説, Spiegazione generale del jūdō Kōdōkan, 1915, in Kanō Jigorō Taikei 嘉納治五郎体系, vol. 3, Tōkyō 1988), pp. 121-125).