Da bujutsu a budō (2)
Le “vie” di approfondimento personale legate all’impiego di armi tradizionali, come la spada (kendō 剣道) o l’arco (kyudō 弓道), o all’uso del corpo in modo consapevole per apprendere forme di autodifesa a mani nude (jūdō 柔道,karate-dō 空手道, aikidō 合氣道) e così scoprire nuove possibilità di impiego della propria energia e della relazione con l’alterità si sono dunque evolute in forme di addestramento e di educazione etica, che pur mantenendo un legame con la ritualità dei gesti del colpire, del proiettare a terra, del tagliare hanno privato questi stessi gesti del loro carattere mortifero. Differenti aspetti e livelli di pratica sono coinvolti nello studio di queste discipline del corpo. Ciascuna di esse può infatti essere accostata e studiata come pratica rituale o disciplina integrativa: attraverso l’apprendimento e il superamento di un insieme di tecniche il praticante cerca di innalzare e migliorare il suo livello di comprensione della realtà e della modalità del relazionarsi con sé e gli altri; oppure come forma di meditazione: il praticante cerca di percorrere un cammino esperienziale prossimo a forme di meditazione, aprendosi ad una sorta di affrancamento dal flusso invasivo dei pensieri, distaccandosi dalle situazioni contingenti per riuscire a integrarle meglio in un orizzonte più vasto; come disciplina artistica, al pari di altre discipline tradizionali, come la cerimonia del tè o l’arte della scrittura: una disciplina di combattimento viene oggi studiata anche in virtù dei suoi aspetti estetici (il termine “arti marziali” non è un’impropria traduzione dell’antico termine giapponese bugei 武芸, dove il carattere gei sta appunto per “arte”); come disciplina “ricreativa” e salutare: secondo una concezione che intende il fisico e il mentale come parti inscindibili di un’unica realtà, attraverso l’esercizio sul corpo si producono trasformazioni anche alla dimensione interiore, invisibile della persona; come disciplina sportiva: la trasformazione graduale delle tecniche di combattimento, con opportuni accorgimenti e limitazioni, ha portato alla nascita e allo sviluppo di un tipo di allenamento e di applicazione delle metodologie e delle tecniche marziali in senso prettamente sportivo. «L’idea di shinken shobu 真剣勝負 [combattimento con spade vere, cioè potenzialmente mortale] viene sostituita con quella di shiai 試合, una prova tra due persone nella quale un antagonista rimpiazza il nemico» (D.F. Draeger, Bujutsu e budo moderno, vol. 3, tr. it., Roma 1998, p. 60).
Nel processo verso la modernità si è data una progressiva interiorizzazione della realtà del conflitto, accompagnata da una codificazione e una ritualizzazione nuove. La riflessione sulle dinamiche e sui gesti che esprimono e modulano il conflitto ha portato a una nuova comprensione e attuazione del ruolo dello scontro e dell’incontro con l’altro. Anche il concetto di efficacia viene modificato: non si tratta più soltanto di raggiungere la perfezione tecnica e metterla alla prova in una situazione reale, per sconfiggere un nemico nel modo più rapido evitando di venire feriti. Quando il campo di battaglia viene fatta coincidere con il luogo della propria identità, con il proprio “io”, nuovi processi vengono messi al centro dell’attenzione – e pure nuove forme di mistificazione e di paludamento emergono per legittimare forme di pratica che in realtà espandono l’ego, invece di scioglierlo. E quando l’interesse della pratica si sposta progressivamente dalla tecnica alla via, al cammino e al progresso spirituale che attraverso essa si può percorrere, si inizia a correre il rischio che una tale via non sia più aperta e libera alla scelta, ma venga quasi imposta, oppure utilizzata come grande “manto” che legittima ogni tipo di comportamento e di convincimento auto-assolutorio, privo di verifica autentica con la resistenza che l’“altro” opera nei confronti del proprio ego.
Nel mutato orizzonte della modernità le discipline marziali stimolano anche la consapevolezza della situazionalità e della relazionalità del nostro esistere. Possono condurre a un’indagine su se stessi che parte dal corpo, da un lavoro di ricerca a partire dal gesto corporeo e dall’interazione con lo spazio circostante, o ancor più grazie all’incontro con una differenza – costituita dall’altro praticante – che mette in campo una forza oppositiva e cooperante nella sua imprevedibilità e nel suo antagonismo. Il lavoro con un’altra soggettività risulta di grande utilità per esplicitare alcune dinamiche presenti all’interno di ciascuna singolarità. Generalmente nelle discipline di combattimento, o più in generale in ogni “evento” che presenta una realtà conflittuale, la dinamica che vede confrontarsi due individui – o tra due sistemi di pensiero, due concezioni, due idee, due sentimenti – viene immaginata come un’irriducibile contrapposizione: uno è visto muoversi contro l’altro, tra i due elementi della relazione discorde vi è una frattura insanabile. Ciò che si ritiene assolutamente esclusa è la possibilità che tra i due si possa dare un’armonia più profonda. Nel combattimento inteso non come sopraffazione e volontà di dominio i due combattenti si scoprono invece posti l’uno di fronte all’altro per combattere insieme, in vista del raggiungimento di un’intesa più intima, che li eleva al di sopra di ciò che essi erano prima di confrontarsi. Se l’efficacia da raggiungere si intende come l’approfondimento della consapevolezza di sé e dell’altro, la lotta diviene un “combattere con l’altro”, invece di un mero “combattere contro l’altro”. Nella pura opposizione non ci può essere approfondimento della coscienza e della relazionalità del reale, mentre nello sforzo congiunto è possibile pervenire proprio a quel significato del contendere che altrimenti sfugge inesorabile alla riflessione.
In questo contesto, “conoscere”, “comprendere” non indicano un movimento esclusivamente intellettuale. Si tratta di entrare nella logica di un tipo di conoscenza e comprensione indissolubilmente associate al movimento del corpo, al suo sentire, alle sue emozioni. In alcune situazioni che implicano scelte rapidissime e non frenate da interferenze razionali, viene privilegiata una via “somato-sensoriale” rispetto ad un’altra, intellettiva, per trovare un percorso da seguire. L’emozione, in quanto messaggio corporeo, può essere educata e formata attraverso procedure d’azione efficace più veloci di quelle che necessitano di una mediazione intellettiva. Saranno il corpo e i suoi meccanismi di comprensione e interazione con il mondo a guidare la condotta e la capacità di interagire con l’alterità, integrandola e confrontandosi con essa invece di lasciar prevalere tensioni fisiche e psichiche incapaci di produrre dinamiche di incontro. L’apprendimento corporeo ottiene così un effetto quasi paradossale: l’affrancamento da una corporeità incapace di gestire le proprie sensazioni ed emozioni, che impara gradualmente a fluire nelle tecniche codificate fino ad assimilarle come una natura spontanea, fino a realizzare la compartecipazione di sé e dell’altro in uno spazio-tempo al contempo accogliente e costruito dalla relazione. «Il budō implica un forte investimento del corpo e di numerose ripetizioni per cogliere lo spazio-tempo complesso che gli corrisponde. Il gesto acquisito conferisce al corpo la percezione di suoi assi e dello spazio. […] Quando il corpo stesso si obiettiva tanto nella percezione del proprio atto quanto nel proprio essere, e indipendentemente da ogni psichismo, allora parlo di una identità corporea» (A. Cognard, Vivre sans ennemi, Gordes 2004, p. 36).
La valenza motoria e cinestetica si fonde quindi con la dimensione psicologica: La definizione del sé necessita dell’apparire dell’altro; al contempo, il conflitto favorisce l’individuazione. Lavorando con il corpo si accede ad un livello superiore di coscienza di sé e dell’altro, al punto che si può riconoscere come senza l’attraversamento di un’esperienza di conflitto non vi possa essere una coscienza matura. «L’attacco avviene quando l’altro non può servire come oggetto nell’espressione del conflitto interiore, per obbligarlo a diventare proprio questo oggetto. La risposta violenta all’attacco è indice dell’incapacità di restare soggetto davanti allo scatenamento di energia che chiamiamo violenza» (A. Cognard, Aikido. Il corpo filosofo, tr. it., Milano 1997, p. 91).
* Marcello Ghilardi è docente di Estetica e di Philosophy of Interculturality all’Università di Padova, presso la quale è anche vice-direttore del Master in Studi Contemplativi. È socio fondatore del gruppo di ricerca internazionale sulla filosofia interculturale Mushin’en e membro dello European Network of Japanese Philosophy, nonché autore di numerosi saggi e monografie su diversi temi legati alle arti e al pensiero di Cina e Giappone. Ha iniziato la pratica delle arti marziali e di discipline di combattimento nel 1986, studiando in particolare la boxe cinese (sanda) e alcuni stili di wushu e di kungfu (changquan, shaolinquan, taijiquan, xingyiquan); è inoltre 3° dan di kendo e 1° kyu di judo.