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Judo

Rubrica “Judo, combattimento e cultura” a cura di Marcello Ghilardi

La trasformazione delle finalità e delle metodiche di allenamento ha portato tra Otto e Novecento alla formalizzazione di una peculiare concezione dell’insegnamento e dell’apprendimento, così come all’elaborazione intuitiva di unakanji3 visione dell’uomo e del mondo che attinge in parte alla tradizione e in parte alla nuova cultura sviluppata dal contatto con l’Occidente. La dialettica pedagogica di tradizione e iniziazione si inscrive all’interno di quel processo (che vedremo più dettagliatamente in un articolo successivo) che in giapponese viene scandito dai tre termini shu 守, ha 破 e ri 離. Per poter acquisire un proprio stile e raggiungere la maestria – una cosa diversa dalla mera padronanza di una tecnica – bisogna sapere conservare la conoscenza e la passione dell’inizio, ma averla anche assimilata in modo tale da non esserne più “dominati”. Il fluire del gesto, nel maestro, è tutt’uno con la sua persona, non c’è più dualismo tra la forma e il suo contenuto, e ogni atto della vita risulta informato da una visione più ampia di quella meramente tecnica, poiché ha assunto la tecnica come mezzo per oltrepassarla e sconfinare nel campo ben più vasto della relazione con gli altri e con il mondo, non confinato al dōjō 道場, il “luogo della via” in cui ci si addestra alla singola disciplina ma le cui pareti devono essere abbattute per coincidere con lo spazio circostante. Un modo per descrivere la progressione tecnica di un allievo, la cui iniziale istintività viene prima frustrata dalla necessità dell’apprendimento tecnico, il quale a sua volta dovrà essere superato per guadagnare una libertà più ampia – proprio perché non più soltanto istintiva – è quello del monaco zen Takuan Sōhō (沢庵宗彭, 1573-1646):

Dal momento che il principiante non sa nulla riguardo alla posizione corretta del corpo o del modo in cui si tiene la spada, la sua mente non sarà condizionata da alcunché. Se un uomo lo colpisce, molto probabilmente reagirà all’attacco in modo istintivo. Non appena il principiante inizierà a studiare e gli verranno mostrati il comportamento e l’atteggiamento mentale da osservare, la sua mente si fermerà sui diversi aspetti. A questo punto, se vorrà colpire un avversario, si sentirà a disagio. In seguito, col passare del tempo e continuando con la pratica, il principiante si sarà reso conto di non essere più tale, in quanto la sua mente si sarà liberata dal peso dei pensieri che prima lo affollavano, e sarà tornato com’era all’inizio, quando tutto doveva ancora essere appreso. Ecco come diventa evidente il motivo per cui l’inizio debba essere come la fine; così come si conta da uno a dieci, e il primo e l’ultimo numero diventano adiacenti. Analogamente, con i toni musicali, quando ci si sposta dal tono iniziale, più basso, al tono finale, più alto: il più basso e il più alto diventano adiacenti (Takuan Sōhō, Sogni, tr. it., Milano 1995).

La “coincidenza degli opposti” (di alto e basso, inizio e fine) a cui Takuan allude non deve ingannare: gli estremi si toccano, certo, ma un percorso è stato tracciato, il discepolo ha ritrovato la naturalezza che aveva perduto durante l’apprendimento tecnico, ma nel processo si è trasformato; la formazione è sfociata in una reale trasformazione. In che senso “reale”? Reale è ciò che ha a che fare con la res, con la cosa; è ciò che produce effetti sul mondo e su se stessi, è ciò che causa o modifica un assetto di cose. È di nuovo in questione l’efficacia dell’azione: reale è proprio ciò che è dotato di efficacia. Il raggiungimento di una unificazione delle capacità dell’essere umano, come quello che si propongono tra le altre discipline quelle che costituiscono il budō moderno, non significa tanto un ampliamento quantitativo delle proprie facoltà, ma un mutamento qualitativo nella capacità di rivolgersi agli altri e al mondo. Se la propria intuizione di una pratica sia qualcosa di vano e sganciato dalla realtà o se si tratti di un’autentica e profonda visione delle cose dipende infine dalla relazione con l’altro da sé, cioè dal tipo di effetti che produce al di fuori della propria individualità.

Questo tipo di logica dell’apprendimento e di una trasformazione di sé che sappia tradursi in atti efficaci all’interno della realtà implica anche un atteggiamento nei confronti dell’educazione non appiattito sul semplice adeguamento dell’allievo ai dettami del maestro o a un bagaglio di soluzioni e risposte da ereditare in modo asettico e acritico. Se la “verità” dell’apprendimento risulta da una pura riproduzione di gesti imitati ma non assimilati né compresi, non solo non ci potrà essere trasformazione possibile – né dell’allievo, né del maestro, che non cessa di trasformarsi egli stesso nel rapporto educativo – ma il processo resterà estrinseco tanto alla verità quanto alla persona, e in definitiva privo di efficacia; scoprendo qualcosa di già dato, non sarà in grado di produrre alcunché di nuovo nell’esperienza del soggetto, non sarà portatore di una dimensione originale, unica e nuova, incarnata in quel singolo essere umano.

In un tale contesto, ogni domanda sarà già da sempre ricompresa nella rubrica delle domande possibili con risposte già da sempre previste. Si tratterà di risposte esatte, ma non vere: perché la verità, che non è mai riducibile ad oggetto, a un dato manipolabile, costituito una volta per tutte, può accadere solo nella relazione vitale e unica che accade ogni volta di nuovo tra un maestro e un discepolo, tra persona e persona, i shin den shin 以心伝心: “da cuore a cuore”, “da mente a mente”, o anche “da interiorità a interiorità”. Di qui il carattere eversivo dell’evento della trasmissione, evento che eccede la misura, normalmente assegnatagli, di semplice “travaso” di nozioni. La trasmissione educativa autentica si rivela invece «condivisione di un’esperienza profonda e assoluta, che addirittura trascende la materia trattata e e può richiedere anni, o avvenire all’istante» (C. Barioli, Kano Jigoro educatore. Il vero judo, Milano 2010, p. 45). La conoscenza si scopre realizzazione inedita, rinnovata di volta in volta da chi la vive e fa sì che essa si compia, senza tuttavia che possa mai esaurirsi in un sistema di concetti, di gesti, di tecniche; l’autenticità, la verità di se stessi, nel percorso formativo, è un processo; la didattica si affranca dalla subordinazione a un sapere rigido e diventa un evento sempre rinnovato tanto sul tatami quanto nel mondo e nella vita quotidiana.

La caratteristica delle discipline del budō è quella di lavorare sul corpo e con il corpo, nella consapevolezza che la corporeità non segue semplicemente la facoltà intellettiva, ma costituisce un’altra forma di intelligenza, e si struttura secondo altri codici seguendo percorsi originali e irriducibili ad una articolazione logico-linguistica. L’ambito corporeo non esclude cioè quello razionale, ma lo integra offrendo una possibilità ulteriore di unificazione dell’essere umano, riconoscendo l’importanza di seguire piste sempre intrecciate anche se distinte, con caratteristiche, potenzialità e forme di efficacia differenti. Alcuni passi tratti dagli scritti di Kanō Jigorō sono emblematici circa l’importanza attribuita a un apprendimento che coinvolga il corpo, e sono anche rivelatori della capacità di contaminazione positiva tra Oriente e Occidente che le menti giapponesi più illuminate di quell’epoca hanno saputo produrre: «Il Maestro [Fukuda Hachinosuke] aveva una didattica diversa da quella che si usa oggi. Ricordo che una volta mi proiettò e io, rialzatomi prontamente, chiesi come avesse fatto. “Vieni avanti”, rispose, e mi proiettò subitaneamente; io ho insistito e rialzandomi ho chiesto ancora come si usassero le mani e i piedi in quella forma. Il Maestro tornò a ripete “Avanti ancora”, proiettandomi per la terza volta. Quindi posi per la terza volta la domanda, ottenendo la risposta: “Non potrai comprendere facendo domande, ma solo praticando; dai, vieni qui!”, e continuò a proiettarmi. In questo modo insegnava al corpo» (J. Kanō, Il judo e la vita. Autobiografia, in Kanō Jigorō zenshū 嘉納治五郎全集 [Opere complete di Kanō Jigorō], Satsuki shobo, Tokyo 1983, vol. 2, citato in C. Barioli, Kano Jigoro educatore, p. 72).

 

 

 

autore* Marcello Ghilardi è docente di Estetica e di Philosophy of Interculturality all’Università di Padova, presso la quale è anche vice-direttore del Master in Studi Contemplativi. È socio fondatore del gruppo di ricerca internazionale sulla filosofia interculturale Mushin’en e membro dello European Network of Japanese Philosophy, nonché autore di numerosi saggi e monografie su diversi temi legati alle arti e al pensiero di Cina e Giappone. Ha iniziato la pratica delle arti marziali e di discipline di combattimento nel 1986, studiando in particolare la boxe cinese (sanda) e alcuni stili di wushu e di kungfu (changquan, shaolinquan, taijiquan, xingyiquan); è inoltre 3° dan di kendo e 1° kyu di judo.