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Judo

Rubrica “Judo, combattimento e cultura” a cura di Marcello Ghilardi

 MUSHIN – Kanji “non – mente” assenza di ego e di intenzione. La condizione di vuoto di realizzare una tecnica come se essa venisse realizzata da sé, spontaneamente, nel modo perfetto e più efficace.kanji5

5.Dall’efficacia all’estetica, dall’estetica all’etica

Nella pratica costante del judo si può cogliere una dimensione più ampia di quella legata al dominio delle tecniche. Dalla dimensione dell’efficacia in combattimento e da quella della bellezza estetica del gesto fisico si transita verso un significato etico, se il soggetto si perfeziona man mano che cresce la sua abilità nell’arte.

L’incrocio tra etica ed estetica è un dato non trascurabile nell’evoluzione delle discipline marziali nella modernità. Il principio morale che esse hanno l’ambizione di incarnare e di trasmettere tramite una pratica corporea non ha a che fare soltanto con la bellezza del gesto, ma in modo più generale con alcune sensazioni e percezioni cinestetiche afferenti all’ambito del corpo e delle emozioni. Come scrive Cesare Barioli, «Si individua, nell’aspetto storico del judo, una sensazione interiore di natura estetica, che ci permette di superare le nozioni di vittoria e di sconfitta. Questa esperienza potrebbe costituire il punto di partenza per proporre un percorso di unificazione dell’essere differenziato dalla disciplina di combattimento. […] Nel judo l’estetica si manifesta nel fare come una sensazione del corpo anziché sensi. Viene percepita attraverso l’azione chiamata ippon magistrale, che consiste in un avvenimento unico e irripetibile. […] Affidandosi alla sensazione estetica, tutti vincono, e la gara di judo acquista validità sociale» (C. Barioli, Kano Jigoro educatore, Milano 1997, pp. 97 e 130).

Qui viene espressa l’intenzione che anima il judo superiore (shushin jūdō) a ricercare un livello di unificazione sia del singolo, al proprio interno, sia del soggetto nel contesto più vasto della comunità senza la quale lo stesso soggetto scadrebbe a individuo irrelato, incapace di creare relazioni e di contribuire alla edificazione di una rete comunitaria. Attraverso una sensazione che non afferisce soltanto a uno o più sensi, ma alla corporeità nel suo complesso, come somma maggiore delle sue parti, il praticante di judo è condotto a superare le nozioni di vittoria e sconfitta, guadagno e perdita personali, e a sentirsi parte di un universo che non esclude l’altro ma al contrario lo integra e permette di riconoscerlo come parte di sé, come quella altera pars senza la quale il soggetto cadrebbe in un solipsismo (solus ipse) cieco a ciò che lo circonda e che, in realtà, sempre lo sostanzia, lo definisce, lo fa crescere – anche quando lo ferisce o lo proietta a terra. La bellezza estetica di una tecnica riuscita, espressa al livello più elevato di coordinazione del corpo e della mente, in cui questi due ambiti non sono più percepiti come distinti ma sono appunto unificati, è la bellezza di un momento e di un movimento che “accade” da sé. Non c’è più nemmeno un “ego” che lo esegue, che si possa arrogare il merito di quel gesto: esso si dà, spontaneamente – secondo la nozione cinese di ziran 自然, natura/spontaneità – e attraverso l’accadere di quel gesto si forma un’armonia nuova. Anche i due contendenti si scoprono uniti in un gesto che non prevede più nemmeno un vincitore e un vinto, ma «tutti vincono». La validità sociale del judo richiama in questo senso la condivisione del sensus communis già invocata dal filosofo Immanuel Kant a proposito della bellezza, che implica una richiesta di universalità nel soggetto che la avverte. Il necessario riferimento al compiacimento che il bello suscita non possiede un carattere né teoretico né pratico, secondo Kant, bensì può essere detto soltanto esemplare. Si tratta di «una necessità del consenso di tutti in un giudizio che viene considerato come esempio di una regola universale che non si può addurre. Poiché un giudizio estetico non è un giudizio oggettivo e conoscitivo, questa necessità non può venire derivata da concetti determinati» (I. Kant, Critica della capacità di giudizio, “Analitica del bello”, § 18, tr. it., Milano 1995, p. 237).

A fondamento della comunità, prima e più che il giudizio dell’intelletto, sussiste il giudizio estetico, che è di altra natura, non operando a livello di concetti. Su questo piano di condivisione universale, intesa non come data a priori o in linea di principio, ma come qualcosa che sia sempre da ricercare, qualcosa a cui tendere, si può lavorare per ampliare e favorire una “comunicabilità” o condivisione ad ampio spettro in grado di fondare la costruzione di un’etica quanto più possibile condivisa, non imposta ma proposta e rivelata da un’esperienza corporea. Così si esprime Kano in una conferenza tenuta all’Università di Los Angeles in occasione di Giochi Olimpici del 1932: «Conosciamo tutti la gradevole sensazione percepita attraverso l’esercizio da nervi e muscoli e proviamo soddisfazione nella conquista di capacità, nell’uso del corpo e anche nella sensazione di superiorità sugli altri che ci può riservare la competizione. Ma a parte queste soddisfazioni c’è quell’amore per il bello e il piacere che ne deriva assumendo atteggiamenti corretti e dall’effettuare movimenti armonici, e anche nel vedere tutto questo in altri. L’allenamento in questa visione […] costituisce quello che chiamiamo l’aspetto emotivo o estetico del judo» (J. Kano, Il contributo del judo all’educazione, citato in C. Barioli, Kano Jigoro educatore, Milano 1997, p. 162).

Il piacere provato dalla pratica di un judo di livello inferiore (shōbu) o medio (rentai), che riconosce anche il piacere di una «sensazione di superiorità» dovuta alal conquista di certe capacità tecniche, viene poi lasciata alle spalle quando si accede a un judo superiore (shushin), nel quale il piacere estetico è legato alla testimonianza di analoghe capacità negli altri. Il praticante viene “catturato” in una dimensione di empatia nei confronti dell’altro, e la sua percezione arriva letteralmente a cogliere in unità identico e diverso, sé e altro da sé. L’ippon 一本magistrale è quella tecnica che produce, in una gara sportiva, il punto pieno, che conclude il combattimento e assegna la vittoria; ma che appunto, per il suo valore estetico e per la gratuità con cui accade rende i lottatori il “luogo” del manifestarsi di una bellezza che trascende le loro singole individualità, e li lega in un abbraccio reciproco. La bellezza del gesto tecnico rappresenta anche la sua verità, una verità del momento e del movimento, ma che si amplia ad incorporare la vita. L’ippon si presenta come una possibile traduzione, nell’ambito del budō, di quell’“attimo immenso” (come l’avrebbe definito il filosofo Friedrich Nietzsche) in cui ogni frammento di esistenza viene assunto, concentrato e colmato di senso. Nell’esecuzione tecnica del gesto perfetto – perfetto perché puro, de-soggettivato, quindi “naturale” – l’io si trasforma perché si sente compartecipe con l’altro di un’esperienza estatica, non più riassumibile in termini quantitativi o misurabili. La soggettività propria e altrui si fondono in unità, vengono coinvolte in quello che, nella lingua giapponese, si può definire come uno “sprofondarsi” (bossuru 没する) l’uno nell’altro. Questo è lo stato in cui soggetto e oggetto si sono dimenticati l’uno dell’altro in quanto soggettività separate, perché congiungendosi nell’atto spontaneo hanno ceduto il posto al puro accadere della realtà. La gratuità del gesto appare come scoperta, fonte di stupore da entrambe le parti coinvolte; e appare anche come condizione perché si possano liberare energie che altrimenti sarebbero rimaste ignote e inaccessibili. In questo tipo di esperienza l’altro non sarà più mera proiezione dell’io, oggetto per un soggetto che lo inquadra e cerca di “inquadrarlo” all’interno di categorie o di azioni strutturate. La conoscenza del corpo, intesa secondo il genitivo soggettivo, è la conoscenza che il corpo stesso possiede ed esprime, e che trasmette alla totalità della persona immettendola nel processo trasformativo ed educativo.

Unificare percezione e sensazione, volontà ed esecuzione, coscienza e corporeità, sé e altro, immanenza e trascendenza sono i differenti ambiti nei quali si realizza quella che il filosofo Nishida Kitarō (1870-1945) definisce «esperienza pura» (junsui keiken 純粋経験): «Puro è in senso proprio lo stato dell’esperienza così com’essa è, senza nessuna aggiunta del discernimento riflessivo, dato che di solito a ciò che si dice esperienza si mescola in realtà un qualche pensiero […] Quando si fa esperienza direttamente del proprio stato di coscienza non ci sono ancora né soggetto né oggetto, la conoscenza e il suo oggetto sono completamente unificati» (K. Nishida, Uno studio sul bene, tr. it., Milano 2017, p. 11).

Il mondo della creazione artistica, o quello di una capacità di elaborazione gestuale nella quale il soggetto protagonista si sprofonda talmente da dimenticare il sé psicologico, è uno dei campi d’elezione per il verificarsi di un’esperienza della realtà “così com’è” (sono mama その まま), ovvero scevra di componenti riflessive, giudicanti. Il giudizio è sempre a posteriori, se deve descrivere o rendere conto di un’esperienza. Se corpo e mente sono unificanti, invece, l’azione può fluire spontanea. Quelli del pittore, del musicista, dello scultore, del poeta sono solo casi particolari: ogni essere umano, completamente assorbito da un’azione, o da un momento ricettivo, di apertura estatica nei confronti della realtà circostante, si immerge in un’esperienza che precede ogni giudizio intellettivo – il quale comparirà subito dopo, perché quell’esperienza possa essere appresa e consaputa, cioè affinché quell’esperienza diventi pienamente tale. La materia o la disciplina possono essere differenti, ma l’atto creativo in se stesso procede dalla capacità di unificazione (tōitsu 統一) a cui si accede. E anche l’atto più ordinario e quotidiano può essere creativo: immergersi nell’ascolto di una melodia, contemplare un paesaggio, udire il ronzio di un insetto, spazzare delle foglie cadute, baciare una persona amata, svolgere dei calcoli, passeggiare o andare in bicicletta. Non conta il tipo di azione, ma la sua qualità, o meglio la qualità dello spazio e del tempo vissuti in essa, attraverso di essa. Nelle discipline marziali, questo tipo di attenzione e di qualità dell’azione, del tempo e dello spazio vissuti è determinante, ed è per certi versi proprio il cuore della pratica. «Nella temporalità del combattimento, ciò che è in gioco è la densità con cui il tempo è vissuto. […] Noi possiamo dire di combattere anche per la qualità del nostro tempo» (K. Tokitsu, Lo zen e la via del karate, tr. it., Milano 1992, p. 106-107), cioè grazie all’intensità con cui quel tempo “esplode” e non è più riconducibile a parametri quantificabili. Il gesto “puro”, quello che prima è stato definito come ippon magistrale, dipende dalla qualità dello spazio-tempo e dell’interazione con esso, oltre che con l’alterità con cui ci si sta confrontando – il compagno di allenamento, l’avversario, l’agonista; consiste in altre parole nel grado di unificazione, che impedisce l’attaccamento, la polarizzazione del gesto su un singolo punto, ma che espande la dimensione di quel gesto e la presenza della coscienza, in quanto questa non è più legata a un ego né a un obiettivo.

«Originariamente nell’esperienza non c’è distinzione tra interno ed esterno e ciò che rende pura l’esperienza sta nella sua unificazione, non nel tipo di esperienza […]. Che la sensazione sia in ogni caso pensata come esperienza trova forse la sua spiegazione nel fatto di essere sempre il punto focale dell’attenzione e il centro dell’unificazione […]. Nell’esperienza pura non c’è il minimo scarto tra la richiesta e la realizzazione della volontà, l’esperienza pura è lo stato della volontà più libero ed attivo» (K. Nishida, Uno studio sul bene, tr. it. Milano 2017, p. 15). Corpo e mente non sono più due distinte unità della persona, ma si compenetrano in un regime non-duale (in giapponese funi 不二), da sempre al di là di ogni rigida separazione ontologica. Il lavoro con il corpo permette proprio di attingere a questo fondo immanente non-duale; l’esperienza corporea entra in un regime di connivenza con la realtà, in un rapporto di intima compenetrazione. La conoscenza non sarà più quella di un soggetto che si pone di fronte a un oggetto: «Il corpo non è quindi un oggetto. […] La coscienza che io ne ho non è un pensiero, vale a dire che posso scomporlo e ricomporlo per formarne un’idea chiara. La sua unità è sempre implicita e confusa» (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it., Milano 2004, p. 271). È come se il corpo chiedesse che possano venire rivelati i mezzi estetici, sensoriali e percettivi, con i quali esso si fa appunto corpo, nel gesto unico e irripetibile in cui esso torna a nascere. L’ippon magistrale è questa nascita, che può accadere sempre di nuovo.

 

 

autore* Marcello Ghilardi è docente di Estetica e di Philosophy of Interculturality all’Università di Padova, presso la quale è anche vice-direttore del Master in Studi Contemplativi. È socio fondatore del gruppo di ricerca internazionale sulla filosofia interculturale Mushin’en e membro dello European Network of Japanese Philosophy, nonché autore di numerosi saggi e monografie su diversi temi legati alle arti e al pensiero di Cina e Giappone. Ha iniziato la pratica delle arti marziali e di discipline di combattimento nel 1986, studiando in particolare la boxe cinese (sanda) e alcuni stili di wushu e di kungfu (changquan, shaolinquan, taijiquan, xingyiquan); è inoltre 3° dan di kendo e 1° kyu di judo.