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Judo

Rubrica “Judo, combattimento e cultura” a cura di Marcello Ghilardi

 

MUSHIN – Kanji “non – mente” assenza di ego e di intenzione. La condizione di vuoto di realizzare una tecnica come se essa venisse realizzata da sé, spontaneamente, nel modo perfetto e più efficace.kanji4

4. Educare col corpo

La lingua giapponese possiede diverse espressioni che alludono alla centralità del corpo in processi di apprendimento. Si tratta di espressioni ancora vive e impiegate, che denotano la specifica “intelligenza” della lingua – tutt’altro che mero strumento, veicolo per la comunicazione del pensiero, essa è già corpo del pensiero, lo informa in modo ben più radicale di quanto non sia semplicemente utilizzata da un singolo parlante che presume di servirsene come se fosse un elemento neutrale. Espressioni quali karada de oboeru 体で覚える, «imparare col corpo»; mi o ireru 身を入れる, «impiegare il corpo» mentre ci si applica ad un’attività o ad un lavoro; mi o motte shiru 身を以て知る, «conoscere con il corpo», ovvero imparare sulla base di un’esperienza personale; mi o motte shimesu 身を以て示す, «mostrare con il corpo», cioè dare l’esempio, sono tutte emblematiche di un rapporto tra conoscenza e corporeità che nella cultura occidentale è rimasto nella maggior parte dei casi in secondo piano, quando non del tutto misconosciuto. Anzi, in molti collegi o istituzioni “educative” europee, fino a pochi decenni fa, il corpo doveva essere mortificato, le sue pulsioni o esigenze fatte illanguidire, in favore di un supposto primato della mente o dello spirito, considerati disincarnati e anzi frenati da tutto quanto fosse legato alla sfera fisica. Al contrario, in giapponese per indicare ciò che è stato assimilato a fondo si può dire mi ni tsukete iru koto 身に付けている事, ovvero “ciò che è ottenuto con il corpo, colto attraverso il corpo”. In un altro testo importante, Kanō considera l’educazione di corpo e spirito come un unico impegno, rivolto a due dimensioni impossibili da disconnettere, pena la perdita di unità ed integrazione della persona:

 

«Lo scopo dell’esercizio Judo sta nell’acquisizione della padronanza dei movimenti fisici e del proprio animo […]. L’ultimo tema è la coltivazione del corpo, a cui l’addestramento del Judo contribuisce con notevole aiuto e facilitazione. Ho usato il termine shugyō 修行 [coltivazione] invece di quello più comune di tanren 鍛錬 [rinforzamento] perché, mentre con quest’ultimo si designa (riferendosi all’addestramento fisico) un irrobustimento ottenuto sottoponendosi al caldo, al freddo o alla fatica, in aggiunta all’accezione di tanren il termine shugyō vuole intendere lo sviluppo della tendenza naturale di ogni persona, fortificandone con esercizi appropriati i punti deboli, ma senza violentarli; come pure correggere i portamenti corporali, al fine di conquistare un equilibrio generale del corpo» (J. Kanō, Coltivazione di noi stessi, «Jūdō» (giugno 1915), tr. it. in H. Asaki, C. Barioli, «Quaderni del Bu-sen», 3, 1995, p. 87).

 

Diversi punti notevoli si possono riscontrare in questo passaggio. Da un lato, l’acquisizione di una concezione razionale della pratica e dell’allenamento, improntata allo sviluppo delle discipline fisiche occidentali, che Kanō conosceva approfonditamente, gli permette di rifarsi a una visione che distingue corpo e animo (karada 体e kokoro 心), o come altrove scrive, corpo e spirito (karada e seishin 精神), senza tuttavia misconoscere la profonda unità che li lega, come due facce di una stessa medaglia. La capacità del fondatore del judo di collocarsi efficacemente nel discorso della modernità, per proporre la sua innovativa forma di educazione, è testimoniata dalla dimestichezza con cui ha assorbito un linguaggio improntato ai termini dell’educazione fisica europea, sapendoli inscrivere in un contesto tipicamente giapponese. Senza tradire nessuna delle due dimensioni culturali, Kanō ha saputo operare una sintesi inedita nel suo sistema di combattimento e di educazione, intrecciando alcune idee europee con l’esperienza di un corpo-mente integrato tipica della cultura nipponica. Il termine shugyō utilizzato da Kanō per indicare l’esercizio di coltivazione intrapreso con il judo è però desunto dal linguaggio religioso e ascetico: questo mostra anche la conoscenza e il rispetto per la tradizione, oltre all’attenzione portata a una forma educativa che comporti una trasformazione globale della persona e non di un aspetto soltanto. Il termine è la combinazione di due caratteri, di cui il primo, shū, si riferisce invece a una pratica, a uno studio, anche se etimologicamente pare associato all’idea di un «colpo delicato» o di un «tratto preciso». Il secondo, gyō, è un pittogramma che stilizza un incrocio di strade, e significa normalmente l’«andare», il «procedere», il «camminare», dunque un movimento di avanzamento. Tokitsu Kenji lo definisce come «una disposizione soggettiva nella pratica di un rituale o di un modello formale fisso e ripetitivo», che «interviene soltanto quando un soggetto ha ampiamente superato la fase dell’automatizzazione delle tecniche del kata e può fare affidamento su di esse. Il gyō è uno sforzo per superare il livello sensoriale quotidiano o ordinario» (K. Tokitsu, Kata, Milano 2004, p. 69). Rispetto a tanren, un esercizio di “forgiatura” che coinvolge il fisico nella sua dimensione esteriore, shugyō assume agli occhi di Kanō il valore di una formazione più pervasiva, coinvolgente, trasformativa in senso integrale e non parziale. Il lavoro sull’aspetto esteriore, tangibile, fisico, deve prolungarsi in una ri-codificazione della propria persona nel contesto della società, e nella edificazione di facoltà non limitate alla sola sfera del combattimento o della resistenza corporea. L’«equilibrio generale del corpo» non sarà slegato o avulso da un equilibrio più profondo, che coinvolge tutti gli aspetti – fisico, mentale, emotivo, morale – della persona. L’allusione alla «tendenza naturale» della persona, poi, è un ulteriore elemento che dimostra la continuità con la tradizione filosofica cinese, alla quale Kanō era stato educato prima di affrontare lo studio delle lingue e del pensiero europei (Kanō, come pure Nishida, appartenevano all’ultima generazione di intellettuali formati sui classici confuciani e taoisti). In un brano del capitolo xix dello Zhuangzi, uno dei più importanti classici taoisti, si legge di un uomo che riesce a tenersi a galla anche nelle correnti tumultuose di un fiume, grazie alla sua capacità di corrispondere alla propria «natura innata» (in cinese xing 性). Il pensiero taoista persegue proprio lo sviluppo della tendenza naturale dell’individuo, affinché questi possa riconoscersi come parte di un tutto più ampio, micro-cosmo di un universo al quale corrisponde, perché operante secondo le stesse dinamiche polari, yin e yang. Il principio stesso che dà forma alla pratica del judo, ovvero ju yoku go o seisu 柔よく剛を制す («la flessibilità, o cedevolezza, vince sulla rigidità, o durezza»), che deriva dall’antico trattato cinese di strategia militare (il Sanlue zhi juan 三略之巻), sembra richiamarsi al pensiero del Daodejing di Laozi – in cui si mostra continuamente come il flessibile abbia la meglio sul duro, che finisce per spezzarsi proprio perché incapace di flettersi o adattarsi. Come ricorda Anne Cheng, «jūdō è la pronuncia giapponese di roudao, “la via del molle”, termine mutuato direttamente dal Laozi» (A. Cheng, Storia del pensiero cinese, vol. i, tr. it., Torino 2000, p. 189). I principi di tecniche cinesi, come il taijiquan, sono all’opera chiaramente anche nelle tecniche codificate da Kanō, con l’aggiunta operata da quest’ultimo di un metodo di insegnamento che riduceva al minimo i traumi dovuti alle cadute in allenamento e razionalizzava la progressione dell’addestramento.

Lo studio del judo, e la conseguente pratica che coinvolge il corpo, si strutturano secondo Kanō su tre livelli differenti. Questa tripartizione permette di comprendere anche una progressione del valore del gesto, inteso sia secondo una valenza estetica sia secondo una valenza etica. Al primo livello, inferiore, Kanō pone il shōbu-jūdō (o shōbu-hō 勝負法), dedicato all’allenamento di tecniche di attacco e difesa, per confronti sportivi o in occasione di eventuali scontri in strada. È l’eredità del jūjutsu, della “tecnica” volta a un’efficacia pragmatica, ma costituisce anche una tappa necessaria alla costruzione di un più ampio “edificio” del judo. Il livello medio è quello denominato rentai-jūdō (rentai-hō練体法), dedicato soprattutto alla formazione fisica per un corpo sano e in grado di cooperare attivamente in società e di contribuire al miglioramento di essa. Il livello superiore è quello del shushin-jūdō (o shushin-hō修心法), che coincide con una più ampia coltivazione della mente e del principio morale (Cfr. J. Kanō, Discorso sui tre livelli del judo, «Jūdō», 1918, in H. Asaki, C. Barioli, «Quaderni del Bu-sen», cit., pp. 106-108). I due caratteri che compongono il termine shushin rivestono un’importanza particolare nell’ordine di discorsi che stiamo svolgendo. Shu è lo stesso carattere già riscontrato in shugyō, cioè la pratica, lo studio; shin è uno dei due caratteri che indicano il corpo: degno di particolare rilevanza è dunque il fatto che, in giapponese, il principio morale – livello più alto della pratica del judo, secondo Kanō – deve venire letteralmente “incarnato” nel corpo. Shushin è la pratica del corpo elevata al grado più sottile, che unifica l’essere umano ritrovando l’intima corrispondenza di interno ed esterno, di esercizio fisico e tirocinio spirituale. Il corpo qui in questione non è più soltanto il “fisico allenato” in grado di sconfiggere un avversario in gara, né solo il “fisico sano” capace di contribuire alla società in cui vive; è un corpo-mente unificato, che ha saputo espandere le proprie qualità e metterle al servizio degli altri e non esclusivamente del proprio ego.

 

 

autore* Marcello Ghilardi è docente di Estetica e di Philosophy of Interculturality all’Università di Padova, presso la quale è anche vice-direttore del Master in Studi Contemplativi. È socio fondatore del gruppo di ricerca internazionale sulla filosofia interculturale Mushin’en e membro dello European Network of Japanese Philosophy, nonché autore di numerosi saggi e monografie su diversi temi legati alle arti e al pensiero di Cina e Giappone. Ha iniziato la pratica delle arti marziali e di discipline di combattimento nel 1986, studiando in particolare la boxe cinese (sanda) e alcuni stili di wushu e di kungfu (changquan, shaolinquan, taijiquan, xingyiquan); è inoltre 3° dan di kendo e 1° kyu di judo.