Abbiamo superato il giro di boa per il judo di queste Olimpiadi, che per Elisabetta Fratini sono ormai le quarte alle quali prende parte nel ruolo di IT Team-competition running. Dopo Londra, Rio e Tokyo, i Giochi di Parigi sono praticamente di casa per la nostra Elisabetta, che ci dice subito come le emozioni in questa competizione siano sempre vive.
“L’Olimpiade è sempre l’Olimpiade. È quella gara dove succede l’imprevedibile, dove i più forte perdono e gli inaspettati vincono.”
Qual è secondo te il fattore che rende questa gara diversa da tutte le altre, creando colpi di scena decisamente inaspettati?
“Credo che per tanti l’aspettativa è talmente alta che innesca un sistema di paranoia e stress. Dal punto di vista fisico, è raro che qualcuno arrivi impreparato, visto che oggigiorno tutti utilizzano metodi di allenamento da professionisti.
C’è una pressione mediatica importante ed è anche vero che per qualcuno in particolare ci sia una quantità di stress accumulata già da prima dei giochi, magari conquistando il pass all’ultimo. E poi dobbiamo dirci anche che l’aver avuto i campionati mondiali a maggio ha il suo peso.
Si lavora per quattro anni, ma l’Olimpiade poi si consuma in un giorno, è un lampo se ci pensi.”
Com’è il dietro le quinte di questa Olimpiade?
“Devo dire che la partenza è stata un po’ laboriosa, perché non ci troviamo in un vero palazzetto. Si tratta di una costruzione che era stata fatta per sostituire il Grand Palais nel momento in cui era in restauro. Quindi qui erano state riallocate tutte le mostre che si tenevano dall’altra parte. Il Grand Palais Éphémère è una struttura a croce che è vuota quando non viene utilizzata, ma viene allestita a seconda delle necessità. Per fare un esempio, per questi giorni di competizioni hanno smontato una vetrata enorme per costruire le tribune.
La politica di questi Giochi era quello di utilizzare quello che era già stato costruito e portare i Giochi nella città. Che è molto bello da un lato, ma è chiaro che ha richiesto un dispendio di energie grandissimo.”
Londra, Rio, Tokyo e Parigi… ormai sei un’habitué delle Olimpiadi…
“Si potrebbe dire così, ma la verità è che sono tutte diverse, perché non puoi comparare Londra con Rio o con Tokyo, che abbiamo vissuto in piena pandemia. Qui la cosa di enorme impatto, rispetto al Giappone ad esempio, è che c’è nuovamente il pubblico. Il pubblico francese è uno che non si smentisce. Si spende per tutti, non solo per i suoi beniamini. Per spiegare come sono, basti pensare a ieri, quando Djalo ha perso. È sceso dal tatami, si è fermato un attimo e lo stadio intero si è alzato in piedi a cantargli la Marsigliese come supporto morale.”
Quindi com’è vivere questa Olimpiade che per te è quasi di casa?
“È quasi come farla da noi, conosco gli ufficiali di gara e anche tanti dei volontari. Sono tutte persone
che hanno a che fare col judo. È come essere a casa.
In realtà anche a Tokyo e a Rio era così, ma qui un po’ di più. Non c’è la barriera linguistica ecco. Tutto funziona bene, ci sono tante emozioni. È sempre la cosa che tocca di più.”
E a proposito di emozioni, sappiamo che per te gli atleti sono tutti sullo stesso piano, ma ci sono dei momenti in questi giorni che ti hanno toccata particolarmente?
“Se fosse per me, le Olimpiadi dovrebbero essere come il criterium, con tutti che ricevono una medaglia. - dice sorridendo - Se penso ai momenti vissuti in questi giorni, mi viene in mente, ad esempio, la vittoria di Diyora Keldiyorova, la ragazza dell’Uzbekistan. Non è stata la sua prima vittoria in assoluto, non è una che esce dal nulla, si presentava comunque da numero 1 del ranking. Ma, a parte aver vinto con Uta così facilmente, proviamo ad immaginare cosa significa questo oro. Dieci anni fa nessuno avrebbe potuto pensare che una ragazza che viene dall’Uzbekistan sarebbe arrivata in una finale olimpica. E sono un esempio che dà forza anche alle ragazze che magari non vedono nello sport una possibilità, anche per via dei confini culturali. La medesima cosa può rappresentare in modo diverso la stessa Clarisse (Agbegnenou) che se non fosse stato per quell’errore che ha fatto, sarebbe stata in finale per l’oro, perché comunque la forma per andarci ce l’aveva. E lo ha fatto dopo una maternità, dopo aver “lottato” per potersi esprimere e di aver la sua famiglia al suo fianco. L’immagine di lei con il marito e la bimba è stata bellissima, no?
Continuando su questo filone, è bello anche vedere tante donne a fare le coach, sia per l’ambito maschile che femminile, mentre nemmeno tanti anni fa si vedevano per la maggior parte uomini.”
"Grazie Elisabetta, buona Olimpiade! Ed arrivederci a presto, ma a Spilimbergo!"
(Intervista di Erika Zucchiatti, foto di Emanuele Di Felicantonio)