La lotta è nata con l’uomo per necessità di sopravvivenza o di dominio, trasformandosi poi in forma di allenamento del corpo e in competizione sportiva. Esaltazione della forza, della resistenza e dell’agilità, per Otto Heinrich Jäger era «il più completo e armonioso degli esercizi». La lotta agonistica venne praticata da tutti i popoli già in tempi remoti, ma fu in Grecia che raggiunse il più alto livello di notorietà e di perfezione. Sovrani, condottieri, filosofi, scrittori e artisti la tennero in grandissima considerazione, stimandola una scienza e un’arte, indispensabile per plasmare sia il fisico che il carattere. Non a caso se ne attribuiva l’invenzione agli dei o agli eroi: Atena ed Ermes, Ercole e Teseo. Secondo lo storico Plutarco di Cheronea lo sport più antico fu proprio la lotta (pale), da cui derivò il termine palestra per indicare il luogo di allenamento degli atleti. Per l’ateniese Senofonte, discepolo di Socrate, i Greci avevano sviluppato la loro proverbiale astuzia nel costante esercizio della lotta.
La prima cronaca, dettagliata e palpitante, di un incontro di «dura» lotta risale ad Omero, che nel libro XXIII dell’Iliade descrisse con notevole sapienza tecnica il combattimento tra «l’immane» Aiace Telamonio e «il saggio maestro di frodi» Ulisse durante i giochi funebri in onore di Patroclo. Omero ha inserito «l’ostinata lotta» anche nel libro VIII dell’Odissea, tra le gare organizzate dal re dei Feaci Alcinoo in onore di Ulisse.
La popolarità di cui godé la lotta è dimostrata dalla frequenza di citazioni letterarie e raffigurazioni artistiche. Queste testimonianze, sebbene siano spesso frammentarie e talora anche contraddittorie, ci aiutano a ricostruire con buona approssimazione le regole della lotta nel mondo greco. Nei giochi più antichi i lottatori indossavano una cintura, il perizoma, poi si affrontarono completamente nudi, dopo essersi frizionati il corpo con dell’olio di oliva e averlo ricoperto con un sottile strato di polvere. I combattimenti si svolgevano secondo le regole dell’orthe pale (lotta in piedi o perpendicolare) in una buca piena di sabbia per ammorbidire la violenza delle proiezioni al suolo. Per vincere era necessario che l’avversario toccasse per tre volte il terreno con una parte qualsiasi del corpo (per cui il vincitore era detto triakter). Se cadevano ambedue i concorrenti l’azione era ritenuta nulla. La lotta a terra si praticava solo in allenamento o nelle gare di pancrazio, mentre era consentito lo sgambetto.
Dirigeva gli incontri un arbitro munito di una lunga verga che nell’iconografia appare bifida. Essendo le prese iniziali spesso decisive ai fini del risultato, gli atleti cercavano di sfruttarle al meglio per passare all’offensiva o quanto meno per bloccare l’iniziativa dell’avversario. I lottatori venivano sovente raffigurati mentre si afferravano le braccia, con le fronti a contatto: i Francesi chiamano garde ovine questo accostamento delle teste, che fa pensare al fronteggiarsi dei montoni. Platone, che aveva gareggiato a Delfi, scrisse che nella lotta bisognava mantenere l’equilibrio e difendersi da tre tipi di prese: alle braccia, al collo e ai fianchi (Leggi, VII).
Non c’erano categorie di peso, poiché l’abilità veniva considerata preponderante sulla forza, come proverebbe la leggendaria vittoria di Atalanta su Peleo. Si distinguevano, però, due classi di età: i giovani, fino a 18 anni, e gli adulti, oltre i 18 anni, senza limite. A Nemea, a Corinto e alle Panatenee di Atene fu introdotta la classe degli “imberbi”.
Le gare si svolgevano a eliminazione diretta. Gli accoppiamenti venivano sorteggiati dai giudici e se gli atleti erano in numero dispari (all’inizio o in una fase seguente), uno di loro passava direttamente al turno successivo. Costui veniva chiamato efedros, ossia «che sta seduto». Anefedros era detto chi non usufruiva del vantaggio e doveva sudarsi la vittoria in ogni incontro, ricevendo perciò maggiori riconoscimenti in caso di successo finale. Con il termine aptos s’indicava il lottatore vittorioso in combattimento senza essere mai finito a terra. Anche un successo akoniti («senza polvere») era prestigioso per gli atleti, in quanto vincitori per la rinuncia dell’avversario, che riconosceva così la loro netta superiorità.
Secondo queste regole si svolgeva pure la prova di lotta inserita nel pentathlon.
La lotta fu introdotta a Olimpia nel 708 a.C. dopo che per 17 volte si era gareggiato soltanto nella corsa. Il più grande lottatore dell’antichità fu Milone di Crotone, vincitore 7 volte ai Giochi Olimpici (nel 540 a.C. tra i giovani, dal 532 al 512 tra gli adulti), 7 ai Pitici, 9 ai Nemei, 10 agli Istmici.
Pur privilegiando le corse ippiche e il pugilato, gli Etruschi si appassionarono anche alla lotta, come testimoniano i numerosi affreschi nelle necropoli di Tarquinia e di Chiusi. I Romani non mostrarono meno interesse dei Greci e degli Etruschi per la lotta, se Virgilio scrisse che persino i defunti nell’Elisio si dilettavano a «lottare in fulva arena» (Eneide, VI). La lotta, però, venne essenzialmente considerata un esercizio preparatorio alla guerra e solo in età imperiale assunse il carattere di attività sportiva, ma di tipo professionistico.
Le occasioni per organizzare delle gare di lotta sono sempre state numerose: cerimonie civili e religiose, feste agresti, successi militari, ecc. I premi in palio erano i più svariati, quali terre, oro, cariche pubbliche, simboli di prestigio, la mano di una principessa. Con gli incontri di lotta talvolta si decidevano le sorti di una battaglia, si amministrava la giustizia e si assegnavano i regni.
Tra i numerosi aneddoti sulla lotta viene sovente ricordato quanto accadde nel 1520 al Camp du Drap d’Or. Dopo che i lottatori di Cornovaglia al seguito del sovrano d’Inghilterra avevano sconfitto quelli francesi (privi però dei fortissimi Bretoni), imbaldanzito dal successo, il possente Enrico VIII sfidò Francesco I a lottare con lui, ma al primo assalto venne pesantemente proiettato al suolo dal re di Francia.
Nel ‘400 e soprattutto nel ‘500 si ebbe una notevole produzione di manuali di scherma, in cui la lotta appariva un’integrazione del combattimento all’arma bianca. Con opportune tecniche si avevano molte più possibilità di sopraffare l’avversario: utilizzando prese agli arti, sgambetti, ecc. O ancora, perduta la propria arma, si poteva tentare il disarmo del rivale per ristabilire la condizione di parità. Si ricorda in primo luogo il manoscritto Flos duellatorum (1410), di Fiore dei Liberi da Premariacco, con numerosissimi disegni e didascalie in versi. Tra le opere straniere sono preziosi i tre libri di scherma di Hans Talhoffer (1443, 1459 e 1467) e quello con un centinaio di disegni di Albrecht Dürer (1512).
Al XV secolo risale il trattato anonimo De la Palestra (ossia Sulla lotta), il primo testo italiano sulla disciplina, conservato alla Biblioteca Estense. Citiamo inoltre il manuale Ringerkunst (L’arte della lotta), di Fabian von Auerswald, stampato a Wittenberg nel 1539 con 85 illustrazioni del celebre pittore e incisore Lucas Cranach il Vecchio. In queste opere la lotta si liberò finalmente da ogni legame con la scherma.
Verso la metà dell’Ottocento la lotta rifiorì grazie alle spettacolari esibizioni di atleti professionisti che combattevano nelle piazze, nelle “baracche” e nei caffè-concerto di tutta Europa: uomini dalla faccia feroce e dai muscoli d’acciaio, con grandi baffi e dozzine di medaglie al petto. Tra i professionisti italiani vanno ricordati Pietro Dalmasso di Chieri e Basilio Bartoletti di Roma, quindi il triestino Giovanni Raicevich (1881-1957), il più giovane e il più forte di tre fratelli plurititolati. Ottenne la prima importante affermazione al torneo internazionale di Liegi nel 1905 e da allora passò di successo in successo, vincendo i campionati mondiali a Parigi nel 1907 e a Milano nel 1909, confermandosi poi pressoché imbattibile fino al ritiro. Sulle orme di Raicevich il bolognese Renato Gardini (1889-1940) nel catch e il pistoiese Ubaldo Bianchi (1890-1966) nella greco-romana qualche anno più tardi tennero alto nel mondo il prestigio dei lottatori italiani, conquistando entrambi il titolo di campione del mondo.
In Italia la lotta dilettantistica ha mosso i primi passi con la Società Atletica Milanese nella palestra di Porta Ticinese, detta el paviment de giass, che Ernesto Castelli aprì nel gennaio 1899. Lo stesso anno La Gazzetta dello Sport, con l’intento di emulare i giornali sportivi francesi, organizzò il primo campionato italiano: le gare si svolsero in categoria unica al Teatro Dal Verme di Milano e il successo andò a Castelli. Il primo campionato nazionale di stile libero si disputò nel 1930, il primo di lotta femminile nel 1997.
La lotta greco-romana è entrata nel programma delle Olimpiadi moderne già nel 1896, la lotta stile libero nel 1904, la lotta femminile nel 2004.